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SAN MINIATO - Ho conosciuto Luciano Marrucci nei primi anni Settanta, era stato insegnante di religione al Liceo, ma l’avevo solo intravisto. Ci siamo frequentati meglio mentre io ero studente di Storia dello spettacolo all’Università di Firenze; lui infatti era direttore artistico all’Istituto del Dramma Popolare e io vinsi una borsa di studio dell’Amministrazione Comunale di San Miniato per una ricerca sulla storia di questa gloriosa istituzione che, prima di don Luciano, aveva avuto un direttore come don Giancarlo Ruggini, mitico sacerdote allora morto da poco, nel 1973.

Don Ruggini fu sostituito prima da padre Valentino Davanzati, che resse il Dramma dal 1972 al 1976, poi appunto da don Luciano, che avrebbe tentato una strada originale per l’Istituto, restando in sella fino al 1979, per poi tornarvi in anni successivi.
In tante occasioni ho collaborato con Luciano Marrucci, intellettuale e uomo di cultura, uno dei maggiori tra quelli che sono nati e hanno vissuto a San Miniato.
Qualche anno fa, aprendo certo tra i primi un proprio blog, Luciano cominciò a scrivere, come del resto aveva fatto molte altre volte, una sorta di bilancio della propria vita, dicendo che «Da un punto di vista ecclesiastico il mio percorso si presenta come un mirabile esempio di carriera alla rovescia. A cominciare dai miei genitori, dai miei fratelli e dai miei meravigliosi amici, scelti con cura tra i più veraci (per farmi intendere dovrei dire, più scoglionati) ho avuto la fortuna di trovare sempre a mio fianco persone che non mi hanno mai infastidito caricandomi di ambizioni superlative. Grazie a loro ho potuto volare solo a bassa quota (a volte è anche difficile volare a bassa quota!). Tutto questo non avrebbe potuto attuarsi senza la costante complicità dei miei superiori, attenti e perspicaci interpreti dei miei più riposti intenti. Hanno capito che non avendo particolari mire non potevo nemmeno vantare particolari aspirazioni e non hanno mancato di assecondarmi (…). E così, inoltrato ormai nella settantina, mi sono trovato pastore d’anime a badare ben tre parrocchie di campagna tra queste colline declinanti sulla Valdegola che proprio ieri mi sono sembrate groppe di cammelli e dromedari dopo una traversata nel deserto. Curato o abate? Abate. Questo è il punto! Magari abate di niente (abbas nullius), ma sempre abate. A suo tempo dirò perché».
Don Luciano, don Lu, come lo chiamavano gli amici, era nato a San Miniato il 24 marzo 1929, un uomo alto slanciato per tutta la vita, fino alla morte, avvenuta il 29 novembre del 2015, un vecchio signore che in realtà non è mai parso vecchio, semmai trasandato, in un modo che a volte poteva imbarazzare. Anche da bambino era più grande dei propri coetanei, ci sono foto che lo mostrano con un bel volto in mezzo a classi abbastanza anonime. C’è una storia che lui stesso ha raccontato, di un giovane seminarista sulle scale del SS. Crocifisso, dove c’è il grande Cristo di marmo che fino alla metà dell’800 si trovava nel convento di San Francesco. Questo seminarista era malato e presto sarebbe morto, ma potette parlare - quel giorno - con i bambini che giocavano lì davanti. Uno di questi era appunto Luciano Marrucci, che avrebbe deciso di seguirne la strada. L’episodio della «chiamata» di Don Luciano è stato fermato da Francesco Fiumalbi, uno degli ultimi amici di questo singolare sacerdote. «Mi fu riferito - racconta Fiumalbi - da lui stesso nel novembre 2010. Parlando del più e del meno, gli chiesi quale luogo di San Miniato fosse quello a lui più caro. La risposta fu: - La scalinata del SS. Crocifisso, ed in particolare lo spazio in piano davanti alla statua di Cristo Risorto. Era un anno sul finire degli anni ’30, fra il 1937 e il 1940. Don Luciano aveva più o meno 8-9 anni (nacque nel 1929) e la scalinata del SS. Crocifisso era uno dei tanti luoghi in cui si ritrovavano i bambini per giocare al pomeriggio. I ragazzini erano curiosi dell’ambiente che li circondava, così ricco di storia e di fascino. In particolare, una volta delle tante, l’attenzione cadde sull’iscrizione collocata al di sotto della statua del Cristo Risorto. Avevano intuito che avesse a che fare con la statua, ma essendo in latino non sapevano cosa vi fosse scritto esattamente. Passarono alcuni sacerdoti che da piazza del Duomo si dirigevano verso la strada, ma i ragazzini non ebbero il coraggio di fermarli. Dopo poco passò un giovane seminarista, tale Bernini (o Barnini, Don Luciano non ricordava esattamente). Uno dei ragazzini richiamò la sua attenzione e chiese dell’iscrizione. Il seminarista, con fare risoluto, rimontò uno scalino che utilizzò quasi fosse un piedistallo. Con tono solenne declamò: - C’è scritto: CRISTO E’ RISORTO, NON SI MUORE PIU’! (o qualcosa del genere). Di fronte a questo vero e proprio "Annuncio" i ragazzi rimasero profondamente colpiti. Innanzitutto per il modo con cui il seminarista aveva parlato, si resero conto che il messaggio era molto importante. Era lì vicino a loro, lo potevano toccare, ma non potevano comprenderne il significato perché non avevano gli strumenti opportuni, non conoscevano la lingua. Poi, nonostante la giovane età, un po’ di Catechismo lo avevano fatto e quindi erano ben capaci di comprendere. Era stato il ’modo’, deciso, solenne, quasi categorico, del seminarista che li aveva scossi. Come a dire «Se lo dice così, allora è proprio vero! C’è da crederci sul serio!». Don Luciano custodì l’episodio nel suo cuore e di tanto in tanto lo richiamava alla mente. Ma la svolta si ebbe quando di lì a poco tempo (forse qualche mese), il seminarista, che era gravemente malato, morì. Don Luciano rimase sconvolto da questa notizia. Nonostante la terribile circostanza, quella fu la scintilla che lo mosse. Si sentì chiamato a proseguire la missione del seminarista, a donare quello che egli stesso aveva ricevuto: annunciare agli altri che Cristo è risorto e che, per questo, non si muore più. L’anno seguente, alla ripresa della scuola, entrò in seminario».
Mi fermo qui, sono tante altre le testimonianze che ho raccolto su don Luciano, magari per un libro futuro. Cito solo quello che, come mi ha raccontato don Idilio Lazzeri, suo compagno di seminario: don Luciano fin da subito aveva mostrato il suo carisma, la poesia che lo attraversava e anche la follia che spesso percorre i poeti più veri, da Campana a Pasolini.
Don Luciano non si è mai nascosto, né risparmiato: sia quando si trattava della parola poetica, né quando veniva avanti una sua dolce e francescana follia. Ha scritto dei libri bellissimi, sceneggiature e testi teatrali, ha dato vita ad una splendida casa editrice, L’Orcio d’Oro, lavorando insieme ad alcuni artisti sanminiatesi, ha realizzato un Teatro dello Spirito che ancora continua nel lavoro del Dramma Popolare, ma ha anche tradotto un teatro di forte poesia (e follia), come quello di Oscar Wilde e Ingmar Bergman.

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