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Ed eccoci al problema dei problemi, quello capace di mettere in crisi anche il più coriaceo degli apologeti: il problema del male. L’esperienza del male che dilaga e fa strage di tutte le forme di vita, prendendo le sembianze della violenza, delle disgrazie, della malattia, col suo culmine nella morte, è una sfida formidabile all’idea di un Creatore onnipotente e buono. E ogni volta che il male mostra la sua faccia più feroce, dal terremoto che nel 1755 distrusse Lisbona ai campi di sterminio nazisti, risuona la stessa domanda: «Dov’era Dio mentre accadeva tutto questo?». Domanda spesso pronunciata con un’aria di sufficienza, quasi a dire: «Visto che avevo ragione io? Il tuo Dio Provvidente non è che un’illusione».
Nei suoi Saggi di Teodicea, Leibniz propose di dare un senso ai mali particolari inserendoli in un quadro universale: tutto rientra in un ordine buono, che però ci sfugge. Più o meno allo stesso modo aveva ragionato, secoli prima, S. Agostino: quello che noi singolarmente percepiamo come un male rientra in un’armonia più generale. Quindi, i limiti della nostra conoscenza ci impediscono di percepire il quadro generale con tutte le sue conseguenze, anche più remote. Se avessimo la visione completa capiremmo e un giorno capiremo. La risposta agostiniana (e leibniziana) funziona a livello teorico… ma l’esperienza del dolore ci scuote a livello emotivo! Il male che ci colpisce lo sentiamo come un’ingiustizia nei nostri confronti, per questo nessuna risposta teorica ci basta.


Se ci pensiamo bene, questo deriva dall’intuizione di una promessa che, come uomini, portiamo impressa dentro di noi. Senza l’intuizione di questa promessa, il male ci apparirebbe come uno dei tanti aspetti della vita, non come la sua contraddizione. Il dolore e la morte, invece, ci scandalizzano e vorremmo trovare loro un senso, senza riuscirci.
L’ateismo come la rassegnazione (che è una forma falsa di religiosità) non sono altro che tentativi di rimuovere il problema, sono risposte insufficienti alla domanda su Dio e il male. Chiunque si interroghi sul mistero di Dio, non potrà sfuggire all’ostacolo del male. D’altra parte, chi vorrà dare un senso alla propria sofferenza, dovrà confrontarsi inevitabilmente con Dio.
L’unica religione che non si limiti a dare una risposta teorica più o meno consolatoria a questa sfida è il cristianesimo. Il Dio dei cristiani infatti è un Dio che prende su di sé il male, sceglie di soffrire accanto all’uomo, dando un senso, anzi cambiando radicalmente di segno, alla sofferenza e alla violenza più atroce, trasformandoli in mezzi di salvezza. Un agire, questo di Dio, che non è qualcosa di occasionale o transitorio. Nella vita stessa della Trinità, dall’eternità c’è questa dinamica di svuotamento (kenosis) e dono di sé, che si riflette nel tempo nella creazione e nella redenzione.
Un destino di morte e risurrezione, di abbassamento e glorificazione che accomuna tutte le creature ma che sembra raggiungere soltanto una piccola parte di esse. Che ne sarà di tutti gli esseri innocenti e inconsapevoli, dei bambini morti prima di nascere o di raggiungere l’età della ragione, di tutte le vite inespresse che lungo la storia - e la preistoria - o addirittura fuori dalla storia hanno visto sfumare la loro unica possibilità di realizzazione?
L’elemento fondamentale di quello che la tradizione cristiana chiama Paradiso è la partecipazione. Partecipazione alla vita di Dio ma anche partecipazione alla vita dell’intera umanità salvata (la comunione dei Santi). Come scriveva S. Paolo: “Nessuno vive per se stesso e nessuno muore per se stesso”. Solo nella prospettiva della Resurrezione e della Comunione dei Santi ogni esistenza, quindi, anche la più effimera e apparentemente inutile, trova il suo significato e il suo riscatto.

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