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DRAMMA POPOLARE - «Un teatro diverso. Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che quello che si fa a San Miniato non è una Rappresentazione Sacra, non è un Auto sacramental e neppure un Mistero liturgico della cui reviviscenza si occupano gli altri. È Teatro dello Spirito. Spirito come contrario della materia. È ciò che trascende. E in questo senso può dirsi religioso. Perché va oltre la dimensione terrena e temporale. L’individuo non si correla soltanto verso il suo simile o verso se stesso, ma verso ciò che gli appare assoluto, infinito, verso la trascendenza. In questo tipo di teatro c’è un interlocutore, in più, a pensarci bene; una presenza che sta al di sopra e al di fuori e che si manifesta come risonanza misteriosa nella corda profonda dell’anima» (Don Luciano Marrucci).

Non ci sarebbe da aggiungere altro nel riflettere sulla tematica che il teatro di San Miniato, presentando in anteprima assoluta «La Masseria delle allodole», evoca nella sua generale rappresentazione.
Lo spettacolo, dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan, colpisce il mondo emotivo più che la ragione. Esorta alla riflessione più che al divertimento. Siamo nel 1915, quando l’Impero ottomano commise il primo genocidio del ’900, uccidendo un milione e mezzo di armeni.
Il personaggio che sulla scena incarna il «potere politico assoluto» giustifica così le sue azioni violente e distruttrici di fronte al colonnello, rappresentante del potere militare: «Guardi che non abbiamo vinto le elezioni. Noi abbiamo destituito il Sultano! Ci tocca regnare, non governare!».
«Sterminarli, quindi - risponde il soldato -, è l’unica soluzione?».
«Sì, certo. Questo è l’unico dubbio che non ho», conclude il politico.
L’intera scena dello spettacolo si svolge nella grande cucina della Masseria delle allodole, una bella villa di campagna in Anatolia, in cui durante un pranzo si riunisce una famiglia armena che per l’occasione discute di tutto.
Intavola discussioni sulle problematiche politiche e sociali della vita, sui misteri che la vita stessa racchiude, sulle passioni che l’uomo per sua natura possiede nell’anima e nei sensi, sui sogni che ciascuno cerca di realizzare, manifestando nella gioia del vivere, con balli e copiose pietanze di cibo, frutti della generosa terra, la bellezza della vita.
La scena, così giuliva e chiassosa, ha delle pause premonitrici ed ogni esponente si stacca in sequenza dal gruppo e affronta in un monologo la tematica che gli sta a cuore, mentre il gruppo, in silenzio, lo accompagna con balli.
Il problema politico si fa sempre più forte, preoccupante, deciso e il colloquio che si sviluppa tra il colonnello e il politico assume il nodo centrale della vicenda che investe il popolo armeno e i funzionari dell’impero ottomano. Questi ultimi cercano di dare giustificazioni all’aggressione, esponendo definizioni ben precise dello Stato, della Patria, dei suoi confini, della missione militare.
Tutto viene classificato in funzione al potere assoluto: «La Turchia ai turchi, Un progetto per il nostro futuro. Questo è il tempo dell’azione… Avanti colonnello. Via i dubbi. Veleno. Solo veleno. Agisca. Non pensi. Agisca!».
Araxy, una giovane donna che si stacca dal gruppo familiare e recita il suo monologo sulle malvagità e sulle violenze che le donne devono subire, enuncia sullo stupro concetti forti e denuncia le conseguenze di questi atti irrazionali, sostenendo che «lo stupro è una crisi della virilità».
Si susseguono ancora balli, scambi di battute, finché arriva l’elogio agli uccelli del cielo. Il più acclamato è l’allodola, il volatile più poetico «con quel canto celestiale, mentre si lancia in volo».
La scena si spezza ancora e nasce un monologo su un Cristo in croce, steso sul tavolo. Sempad descrive il corpo del Cristo e si ferma su un particolare: i romani erano soliti spezzare le gambe ai crocifissi per abbreviare l’agonia, ma a Lui, il Santo, non fu rotto nessun osso per avverare la profezia dell’Agnello pasquale.
Si entra nella questione religiosa, puntualizzando quanto il potere turco era avverso al cristianesimo. Si pongono domande, si chiede se il male esista: il male non esiste, «Il male è solo assenza di Dio».
Ci stiamo avvicinando ormai al gran finale, allo sterminio della masseria e tutto si fa triste, oscuro. Ogni frase racchiude dolore, odio, sangue. Il Cristo in croce viene innalzato come sul Golgota e contro di Lui infieriscono i soldati. Iniziano le azioni di distruzione non solo materiali ma anche quelle spirituali, religiose dei simboli cristiani. Sembra che il male vinca sul bene, la morte sulla vita.
Al Cristo vengono rotte le gambe per contrastare il messaggio evangelico di Giovanni: «Non gli sarà spezzato alcun osso». (Gv 19,31-37). Viene fracassato con una mazza da baseball anche un cocomero, simbolom della testa di San Miniato, il re armeno che rifiutò di venerare gli dei pagani e venne condannato alla tortura.
La scena si tragica e cupa quando dal frigo viene tolto il cadavere di un bambino. «I bambini maschi saranno uccisi tutti, mentre le donne e le bambine saranno deportate, tutte. Per il resto c’è tempo», così ha sentenziato il politico.
La famiglia del patriarca Hamparzum scompare ed ogni suo componente si veste da poliziotto in tenuta antisommossa. Lo spettacolo è al termine: il sangue ed il male sono adesso i protagonisti assoluti.
Il Dramma si chiude con l’arrivo dell’allodola, personificata da una pantomina fanciullesca, quasi a invocare un ritorno all'innocenza. Un agente si butta contro di essa, con rabbia, con ferocia e con odio sferza il volatile. Mentre lui la colpisce fino a perdere completamente le forze, l’allodola scuote il capo, guarda in alto, allarga le ali, scende dal palco e si disperde tra il pubblico in platea.
Sul palco resta il dramma di uomini che per accecati da una folle idea di potere assoluto non hanno dato nessun valore alla vita, alla dignità della persona, mentre l’allodola, questo celestiale volatile di cui parlano Shakespeare, Dante, Shelley, Baudelaire, cerca la pace, la libertà, la possibilità di esternare il proprio canto. Impersona il popolo armeno e lancia il suo grido di vita: vuole vivere con dignità in libertà. La vita ha vinto ancora.
Cristo nel Vangelo secondo Matteo afferma: «Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Chi avrà perseverato sino alla fine, questi si salverà» (Mt 10,16-22).
La mitezza della colomba ha vinto sulla ferocia del lupo!
È questo il messaggio più alto che sprigiona «La Masseria delle allodole» e l’arte teatrale ne è stata un mezzo indiscusso di alta validità di trasmissione per tutte le nostre coscienze.

(Foto Danilo Puccioni)