Dat Biotestamento

EDITORIALE - Nei giorni scorsi un giornalista ha rivolto alla figlia di un malato grave, che si è battuto per l’approvazione della legge sul biotestamento, questa domanda: “Suo padre sospenderà le cure a breve?”. La donna si è schermita. Mentre fuori dal Parlamento le solite facce da funerale inscenavano surreali caroselli, per i diretti interessati la prospettiva della morte, una volta a portata di mano, non sembrava essere motivo di festa. Eppure la domanda di quel giornalista rendeva immediatamente percepibile l’invito implicito che la legge sul biotestamento rivolge a tanti malati cronici gravi, bisognosi di un’assistenza onerosa: “Allora, cosa aspetti?”.

Lo stesso invito graverà sulle coscienze dei familiari e dei tutori di pazienti incapaci di decidere perché troppo giovani o troppo malati: “Che aspettate? Smettete di alimentare e idratare inutilmente il vostro bambino, è solo un peso per voi e per la società. È nel suo miglior interesse morire”. Questo è il futuro disperato che consegniamo alle nuove generazioni. Un futuro dove domina la paura: paura di restare infermi, paura di finire in un fondo di letto gravemente menomati, paura di dover crescere un figlio che non diventerà mai autosufficiente. Meglio la morte! Questo è il regalo di Natale che la XVII legislatura, da tempo sottoposta, lei sì, ad accanimento terapeutico, ha fatto alla nazione italiana.

D’ora in avanti, chi ha la missione di salvare vite umane dovrà verificare se sia il caso di rianimare o non rianimare, di cercare di salvare una vita o lasciar perdere. Prima della legge sul biotestamento il problema non si poneva. Il compito di un medico, di un soccorritore, era senza dubbio quello di evitare la morte della persona in pericolo. Oggi dipende dalle carte bollate. La legge sul biotestamento ha legalmente reso la vita un bene disponibile e l’omissione di soccorso, in certi casi, un’opzione obbligata.
Gli esiti paradossali di questo stravolgimento dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, così pesantemente condizionata dalla burocrazia, non sono altro che l’ennesima conferma di una deriva antropologica che rende i singoli sempre più soli, fragili e quindi “disponibili”. E i medici sempre più meri esecutori di disposizioni che possono andare contro la loro scienza e coscienza.
Pochi giorni fa, il superiore generale del Cottolengo, don Carmine Arice, ha comunicato che nelle strutture del suo Istituto le Dat non verranno applicate: «Noi non possiamo - ha dichiarato - eseguire pratiche che vadano contro il Vangelo. Pazienza se la possibilità dell’obiezione di coscienza non è prevista dalla legge: è andato sotto processo Marco Cappato che accompagna le persone a fare il suicidio assistito, possiamo andarci anche noi che in un possibile conflitto tra la legge e il Vangelo siamo tenuti a scegliere il Vangelo».
Sentire la voce di un cattolico coerente di questi tempi è un suono cristallino, che fa tornare a sperare in un futuro migliore.