fine vita

DALLA DIOCESI - La nostra è un’epoca strana, finanche contraddittoria. La prova? Prendete due aspetti, terribili, ma pur sempre ineludibili:la sofferenza e la morte. Non c’è una via di mezzo: o le nascondiamo o le spettacolarizziamo.Le riteniamo comunque elementi fondamentali negativi nella concezione odierna della vita. È vero che le acquisizioni scientifiche e la disponibilità di tecnologie hanno consentito un progresso impensabile della scienza medica, ma ha preso piede la negazione e il rifiuto del pensiero della morte. Ne discendono comportamenti distorti. Un’annotazione di don Bruno Meini sul notiziario parrocchiale mette allo scoperto la “moda” di ritardare i sacramenti o, addirittura di evitarliper i morenti. Il motivo è quello di non spaventarli. Il diritto alla verità è una delle questioni cruciali che si pongono quando il medico deve informare il proprio paziente della gravità della sua malattia.


Molto spesso essa viene celata ai pazienti nell’imminenza della morte. Certamente un tale comportamento non giova alla realizzazione di un rapporto equilibrato fra paziente da un lato e medico e familiari dall’altro, e all’accettazione serena del compimento della propria esistenza. La verità deve essere comunicata con misura e garbo, aggiungendovi sempre una speranza di vita, poiché il giudizio prognostico che è professionale, non è – per fortuna – infallibile, almeno in taluni casi. L’angoscia del limite è uno dei temi che coinvolgono drammaticamente l’uomo. Tra le numerose figure in cui questo limite si presenta all’uomo ce ne sono tuttavia tre che più di altre suscitano timore, scandalo ed interrogativi: il male, la sofferenza e la morte. Si tratta di manifestazioni del limite che rappresentano una sfida soprattutto per il pensiero dei credenti, posti di fronte a drammatiche domande su come sia possibile conciliare con la fede in Dio la presenza del male nel mondo e di tanta sofferenza tra gli uomini, nonché sulla possibilità di dare un senso all’esistenza umana nonostante l’incombenza della morte. A questo proposito ci sono di aiuto gli argomenti del libro di Mattias Coser “Le figure del limite in Gisbert Greshake: male, sofferenza e morte”, che consigliamo di leggere a chi abbia voglia di approfondire. L’autore analizza l’itinerario speculativo che permette a Gisbert Greshake di conciliare la fede in un Dio che è amore con la drammatica presenza nel mondo delle figure del limite per eccellenza: male, sofferenza e morte.
Ma la sintesi più efficace la troviamo nel “Compendio del catechismo”: il cristiano che muore in Cristo giunge, al termine della sua esistenza terrena, al compimento della nuova vita iniziata con il Battesimo, rafforzata dalla Confermazione e nutrita dall’Eucaristia, anticipazione del banchetto celeste. Il senso della morte del cristiano si manifesta alla luce della Morte e della Risurrezione di Cristo, nostra unica speranza; il cristiano che muore in Cristo Gesù, va ad «abitare presso il Signore» (2 Cor 5,8). Per questo è un atto di carità cristiana coinvolgere il sacerdote durante l’agonia che amministra al malato il sacramento dell’unzione, anche se non è in pericolo di vita. Non è il sacramento dei moribondi; il nome antiquato di “estrema unzione” è inadeguato. Se una persona però è in punto di morte è bene chiamare il sacerdote perchè amministri al malato questo sacramento e, se ancora possibile, il viatico, cioè la comunione.
Questa è la regola pratica dettata dalla fede in Cristo e dall’amore nei confronti di chi stiamo assistendo. Essa deve essere riaffermata in tempi insensibili non per tradizione, ma per convinzione.