tangenti

DALLA DIOCESI - Senza onestà non c’è vera libertà, se non c’è onestà a decidere i destini di questo paese saranno oggi come ieri le oligarchie criminali delle cupole, delle cricche, dei comitati d’affari. Non c’è libertà dove mafie e corruzione la fanno da padrone, perché quello dei poteri occulti e corrotti è un potere invisibile – come ci insegnò Norberto Bobbio – un potere opaco e irresponsabile, sciolto da ogni controllo, profondamente antidemocratico. Quali libertà esistono in un Paese dove nelle decisioni pubbliche che contano dominano le piccole dittature dei corrotti e dei clan mafiosi, un Paese dove – sono le parole recenti di un boss del clan dei casalesi – “c’erano soldi per tutti in un sistema completamente corrotto”, e “non faceva alcuna differenza il colore politico del sindaco, perché il sistema operava allo stesso modo”? Pochi giorni fa un imprenditore della cupola dell’Expo – siamo a Milano, non a Casal di Principe – ha parlato lo stesso linguaggio: “Il sistema in Italia è marcio, io mi sono adeguato perché se non fai così non lavori. Il sistema tangenti è sistematico nei grandi lavori. Lì se vuoi entrare devi pagare”.

In Italia ogni anno lo Stato spende 250 miliardi di contratti pubblici, e se si paga una tangente – quasi sempre, a giudizio di chi se ne intende – i costi aumentano del 40 per cento, a volte raddoppiano, in qualche caso lievitano fino a sei volte, come nel caso delle linee ad alta velocità: in un’Italia più onesta basterebbe prosciugare l’immensa rendita della corruzione per diventare un po’ più liberi. Sarebbe sufficiente una spendingreview sulle decine di miliardi di euro di costo delle tangenti per scongiurare i tagli che da decenni pesano su istruzione, sanità, università, ricerca, cultura, diritti sociali.
Eppure una democrazia sana avrebbe in sé gli anticorpi per isolare e liberarsi dei corrotti e dei disonesti, per quanto potenti siano, però perché questo accada occorrono partiti politici e cittadini degni di questo nome, c’è bisogno di una società attiva e responsabile. La lezione di un grande pensatore liberale dell’800, Tocqueville, è che la democrazia si trova in pericolo quando la coscienza pubblica viene inquinata dalla sensazione che siano proprio immoralità e corruzione le qualità che portano al successo, quando si diffonde l’idea che la disonestà sia la chiave che apre le porte all’ascesa nei partiti, nelle imprese, nella burocrazia, nelle professioni. Potremmo tradurla in questi termini: la democrazia è in pericolo quando quasi ogni giorno si arresta un ex-ministro e nessuno sembra sorprendersi, quando un politico condannato in primo grado per corruzione vince un seggio europeo con 280 mila preferenze, quando i corrotti e i corruttori già presi con le mani nel sacco vent’anni fa oggi si scoprono ancora all’opera, ad accumulare profitti nell’ombra dei grandi appalti come veri “devoti della dea tangente” che non si fanno scrupoli a nutrire i propri figli con il “pane sporco” della corruzione – sono queste le parole che Papa Francesco ha usato per definire gli amministratori corrotti.
Purtroppo questo scenario ci è familiare. La classe politica italiana è considerata nel mondo più corrotta di quelle del Ruanda, della Giordania, di Cuba, Paesi di tradizioni democratiche non particolarmente limpide. Troppi amministratori italiani si rispecchiano nei meccanismi distorti di selezione della classe dirigente che da tempo premiano il servilismo dei portaborse, il rampantismo di piccoli oligarchi di provincia, le relazioni politiche dei faccendieri, la ricattabilità di chi ha costruito le proprie fortune in spregio alle leggi.
Un grande scrittore francese, Balzac, ha scritto che “la corruzione è l’arma della mediocrità che abbonda”. Chi ha talento, competenze e abilità, l’imprenditore che investe in innovazione, il professionista capace non hanno bisogno di ricorrere alle tangenti perché ottengono ciò che è loro diritto grazie al valore del loro lavoro, e il riconoscimento dei loro meriti si traduce in un valore sociale. Al contrario, un paese corrotto è un paese che si è arreso al proprio declino, alla mediocrità di una classe dirigente dove la disonestà è di casa.