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SAN ROMANO - «L’unica laurea che ho è quella in scienze confuse!». Si schermisce con ironia don Luigi Ciotti, agganciando i numerosi presenti, venuti a San Romano per ascoltarlo su «La voce dei giovani oggi nella Chiesa e nella società civile». Conversazione fortemente voluta dal vescovo Andrea in preparazione al XV Sinodo generale dei Vescovi, che riguarderà i giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Don Luigi ha scelto parole appassionate, di una densità toccante, per affrescare il variegato universo giovanile che frequenta con competenza di educatore da oltre quarant’anni.

Ha consigliato a tutti i ragazzi una sana e santa testardaggine, quella testardaggine che a lui diciassettenne cambiò la vita, dandogli il coraggio e la sfrontatezza di avvicinare, nella sua Torino, un barbone galantuomo, che usava la panchina di un parco come scialuppa di salvataggio nel suo naufragio di solitudine. Ci volle davvero tanta ostinazione al giovane Luigi per scalfire il silenzio e la ritrosia del suo estemporaneo amico, finché un giorno questi non si svelò: si trattava di un valentissimo medico, generoso e amato dalla gente, impazzito a causa di un rovescio della vita. Ne nacque un’amicizia profonda e un mandato inatteso: «Luigi, vedi quei giovani là? Sono lì per farsi una dose. Aiutali a uscire dalla droga!». Fu questo l’inizio di tutto: la vocazione, il sacerdozio, il «Gruppo Abele» e poi «Libera». È perentorio don Luigi: «Ragazzi! Non fidatevi se sulla vostra strada incontrate persone che presumono di aver capito tutto. Cambiate strada!». Cita papa Francesco quando invoca un patto di giustizia tra le generazioni: la Terra su cui viviamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli, e arriva a graffiare quando, riprendendo lo stesso Pontefice, afferma che i poveri di oggi, offesi e umiliati, hanno pochi anni da vivere su questa Terra e non possono attendere i nostri cerimoniosi tavoli di discussione o i nostri documenti programmatici. Il tempo è una responsabilità, e anche i giovani - come i poveri - non possono aspettare, soprattutto in un Paese come il nostro dove due milioni e trecentomila ragazzi stazionano nel limbo sociale del non studio e del non lavoro. «Siamo di fronte ad una emergenza rispetto alla quale si deve e si può fare di più. Con sofferenza rileviamo che questa è la prima generazione di giovani che è stata derubata della speranza. Ogni generazione, nel corso della storia, ha sempre sperato in un futuro migliore di quello toccato in sorte ai padri. Questa invece è la prima a dover sperare che almeno un futuro ci sia. Ma una società che non investe sui giovani, non è solo egoista e avara, è anche condannata all’estinzione. Abbiamo anche ridotto il senso di appartenenza sociale dei nostri giovani che non partecipano più ai processi democratici, manifestando una sfiducia quasi irreversibile verso le istituzioni». Racconta di tre rischi in cui vede impigliarsi i ragazzi oggi: 1) Conformismo: se la maggioranza non rispetta le regole, non si ingaggia, «perché - gli dice qualcuno - dovrei farlo io?» 2) Sfiducia: sta montando l’idea che essere onesti non servirà a cambiare le cose. 3) Ribellione: che è pur sempre un segno di vitalità, ma la ribellione è da intercettare altrimenti diventa una deriva. Racconta che Libera da dieci anni è impegnata anche con minori che hanno commesso reati. Molti sono figli di famiglie mafiose. «Inchiodare alle proprie responsabilità chi ha commesso un reato è un atto di giustizia, ma a un ragazzino hai il dovere di offrire anche luce e speranza. Abbiamo visto risorgere ragazzi impossibili, perché quando regali delle opportunità i cambiamenti avvengono». Poi accadono anche fatti meravigliosi per non dire miracolosi: commuove il pubblico il racconto del suo incontro con una madre all’interno di un carcere minorile italiano che le dice: «Don Luigi vede quel ragazzo che sta venendo verso di noi? Ha ucciso il mio unico figlio di 16 anni. Anche lui ha 16 anni. Quando io e mio marito abbiamo conosciuto la sua storia, quando ci siamo resi conto della sua solitudine, abbiamo messo da parte ogni risentimento. Veniamo ogni 15 giorni a trovarlo. La giustizia deve fare il suo corso, ma alla fine, quando uscirà, io e mio marito abbiamo deciso che lo prenderemo con noi. Laggiù da dove viene non deve tornare. Ha ucciso nostro figlio, ma oggi sentiamo che lui è diventato nostro figlio». Si fa accorato quando sostiene che oggi la fascia di età che richiede maggiore attenzione è quella che va dagli 11 ai 14 anni. «A questa età - dice - si vive una incertezza che rende vulnerabili. In questo tempo storico è diventato decisivo dare attenzione alla pre-adolescenza», così tanto sotto i riflettori che la sociologia ha addirittura coniato il termine di «adultescenza» per definirla. Il motivo di tanta preoccupazione è legato alla cognizione che questo periodo della vita è oramai diventato il crocevia nel determinare la fioritura o il fallimento di un ragazzo. Lo sviluppo psicofisico dei pre- adolescenti è oggi accelerato, c’è una pressione intollerabile: se non si è seducenti e prestanti si rischia di essere scartati ed emarginati dal gruppo dei coetanei. C’è un consumismo barbaro che spinge verso questi atteggiamenti e come educatori abbiamo l’obbligo di cogliere questo grido, testimoniando la sobrietà dei consumi e la generosità del consumarsi per ideali capaci di dare senso, speranza e futuro. «Abbiamo bisogno di chiedere a Dio pedate. La benedizione di Dio deve essere una dolce pedata che ci scuote. Un mondo migliore si costruisce grazie alla generosità di tutti, per andare verso una Terra più giusta e fraterna, da costruire fino alle periferie del mondo. E ricordatevi che abbiamo solo questa vita per farlo!».

 

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