SAN MINIATO - Sull’edizione cartacea del 30 luglio del settimanale diocesano “La Domenica”, curato da don Francesco Ricciarelli, è apparso un curioso editoriale, firmato da don Angelo Falchi. Tale editoriale, che riprendeva quanto da lui pubblicato il 23 luglio nel periodico dell’unità pastorale di Casciana Terme, proponeva una riflessione sulle “nuove vocazioni nella Chiesa” (questo il titolo originale). Dal momento che l’articolo stesso si proponeva come una domanda rivolta al lettore e che invitava ad un sereno confronto – come egli stesso mi ha confermato invitandomi a scrivere quanto dettogli oralmente – mi accingo ora a presentare un piccolo contributo a mo’ di risposta.

La parola vocazione deriva dal latino vocatio che significa chiamata, invito. Tale parola è usata dalla Chiesa, in modo particolare, per parlare della relazione tra Dio e gli uomini. Dio chiama l’uomo: lo chiama all’esistenza e lo chiama alla comunione con sé (cf. CCC 27). Se è pur vero che la Chiesa non usa la parola “vocazione” con un’applicazione unica, è altrettanto vero che essa usa questa parola, anche se in diversi ambiti e contesti, volendo esprimere un’unica idea. La vocazione è la volontà che Dio ha verso la sua creazione, in modo collettivo come in modo singolare, e, nell’uomo, tale volontà è la comunione con Lui. Poiché l’uomo è creato libero ed esercitando tale libertà può sottrarsi, entro certi limiti, al disegno di Dio, a maggior ragione, nella creatura umana, la volontà di Dio è manifestata come chiamata, come proposta.

Una conferma di tale utilizzo della parola vocazione la si ha, oltre che dalla Sacra Scrittura, anche leggendo i documenti del recente Concilio Vaticano II. In esso vi troviamo, ad esempio, che «la ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio» (GS 19) ma troviamo anche espressioni come «secondo la vocazione di ciascuno» (GS 43). Ora il testo più importante, per il nostro discorso, è forse quello di Gaudium et Spes 22 allorché si dice che «la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina».

Leggendo questi testi del Concilio si capisce che la Chiesa conosce l’esistenza di una vocazione unica ed una vocazione specifica. La vocazione unica è quella «divina» (GS 22) quella, cioè, che tutti gli uomini siano in comunione con Lui (cf. GS 19) e, riuniti in un solo popolo, siano salvati (cf. LG 13). Quella specifica è il modo con cui ogni singolo uomo aderisce ed attua questo piano di Dio (cf. LG 41).

Vocazione diventa, allora, il sentire, nel cuore di un uomo, una chiamata a stare con Dio in modo particolare, divenendo sacerdote o vivendo in modo eremitico. Similmente vocazione può essere il sentire, nel cuore di una donna, il desiderio di essere completamente di Dio, consacrando la propria vita o la propria verginità. Vocazione diviene l’amore di due coniugi, che donandosi completamente a somiglianza di come Cristo ama la sua Chiesa, formano una nuova famiglia cristiana. Ma vocazione è anche, per due coniugi cristiani, il capire che c’è un desiderio di Dio perché accolgano con loro un bambino che non ha famiglia ponendo un limite alla sua sofferenza, oppure vocazione diviene l’accettazione volontaria della morte causata dalla mano di empi in odio alla fede. In tutti questi modi diversi, visti a mo’ di esempio, si espleta l’unico progetto di Dio, con una Sua chiamata ed una libera risposta dell’uomo.

Fatti questi esempi, cerchiamo di capire meglio quali mezzi possono attuare una vocazione. Dobbiamo, infatti, capire se qualsiasi cosa io faccia può essere detta vocazione se ho l’intenzione o l’impressione che mi permetta di essere e restare nella comunione con Dio.

Come abbiamo visto, la vocazione può apparire molteplice, ma essa però resta unica nel suo fine. Ora, il punto nodale della questione, è che Dio non può comandare di fare il male per averne in cambio un bene (cf. Veritatis Splendor 78-83; Sant'Agostino, De libero arbitrio, 2, 19; CCC 311; S. Th., I, q.19, a.9; q.15, a.3; q.9, a.1). Ne consegue che non può chiamarsi, in senso stretto, vocazione desiderare e compiere atti non buoni in sé (intrinsecamente malvagi) che un uomo compie sperando di ottenerne un bene. Su tutte queste questioni troviamo delle illuminanti e bellissime pagine nell’Enciclica Veritatis Splendor di San Giovanni Paolo II, che ripercorrono tutta la Tradizione della Chiesa.

Il Santo Padre ricorda, ad esempio, che «le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto “soggettivamente” onesto o difendibile come scelta» (VS 81). «Del resto – continua il testo – l'intenzione è buona quando mira al vero bene della persona in vista del suo fine ultimo. Ma gli atti, il cui oggetto è “non-ordinabile” a Dio e “indegno della persona umana”, si oppongono sempre e in ogni caso a questo bene» (VS 82).

Alla luce di queste considerazioni appare chiaro come non si possa chiamare vocazione l’agire contro Dio o contro un suo comando (mezzo) al fine di essere in comunione con Lui (fine). La vocazione è sempre e solo una chiamata che parte da Dio e raggiunge l’uomo affinché egli raggiunga il Bene. Ed «il bene è appartenere a Dio, obbedire a Lui, camminare umilmente con Lui praticando la giustizia e amando la pietà» (VS 11). «Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha già dato risposta a questa domanda: lo ha fatto creando l'uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo fine, mediante la legge inscritta nel suo cuore (cf. Rm 2,15)... grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare» (VS 12).

In oltre, va ricordato che un atto non è oggettivamente buono in base a quello che credo io oppure in base al numero di persone che lo compiono. Tutta questa trattazione ci permette di avere degli strumenti per capire come discernere una vocazione, visto che nell’articolo a cui sto facendo riferimento si parlava di nuove vocazioni.

A titolo di esempio, non posso dire che oggi c’è una nuova vocazione a non dialogare e non rispettare i propri genitori o che oggi c’è una nuova vocazione ad abortire, peraltro cose oggi molto diffuse, in quanto entrambe le cose ipotizzate (che sarebbero mezzi) vanno contro la volontà di Dio; nello specifico contro i Dieci Comandamenti. Restano un male anche se compiute da intere nazioni, da migliaia e migliaia di persone. Per questo non posso in alcun modo chiamare vocazione lo stato del divorziato, che vuole ed attua la separazione matrimoniale. Un discorso più approfondito va fatto per il separato e per il vedovo.

Per questi ultimi due, la questione nodale, è se posso chiamare vocazione uno status che io non ho cercato ma ho subito, come accade per il vedovo o per coloro che subiscono la separazione senza alcuna responsabilità morale. Dal momento che questo status non mi raggiunge per una mia volontà ma per una volontà a me esterna e che questo status mi porta a soffrire, posso chiamarlo vocazione, intendendo così una chiamata di Dio a vivere questa sofferenza?

La risposta deve essere negativa. Non posso chiamare questo status vocazione perché quello che mi accade è un male e Dio non può essere origine o causa di un male (cf. S. Th., I, q.19, a.9). Non è lecito, dunque, chiamare, in senso stretto, nuove vocazioni nuovi stati di sofferenza o di dolore che si manifestano in certi periodi della storia, come non sarebbe stato giusto chiamare nuova vocazione l’andare verso un campo di sterminio durante l’ultima Guerra Mondiale. Resta invece possibilissimo e anzi salutare, vivere il male che ingiustamente si subisce in offerta a Dio.

Il problema principale dell’articolo sta quindi nell’uso della parola “vocazione” e nell’avvicinare certe condizioni di vita a segni sacramentali.

Cerchiamo di vedere il paradosso. Non possiamo affermare che Dio ha chiamato un uomo a sposarsi affinché poi veda morire sua moglie e realizzi così, nella sua vita solitaria, la comunione con Lui. Ma soprattutto non possiamo affermare che Dio chiami l’uomo e la donna a sposarsi, celebrando un sacramento, che è segno di come Cristo ama la sua Chiesa, per poi chiamarli a tentare di distruggere (o almeno a mettere da parte) quel vincolo a cui Egli stesso li aveva chiamati. La condizione nel quale viene a trovarsi un separato non può e non deve essere chiamata vocazione perché Dio non chiama l’uomo al male: né a compierlo né a viverlo.

La separazione dei coniugi, per quanto in alcune circostanze sia lecita o tollerabile (cf. FC 83), non era nel progetto originario di Dio (cf. Mt 19, 4; Mc 10, 6) e non era nel progetto e nell’intenzione dei nubendi all’atto del matrimonio. Essa è oggettivamente non buona e come tale non voluta da Dio (cf. AL 291). L’oggettività della cosa, poi, non va confusa con la colpa morale soggettiva. Se tale situazione si è venuta a creare senza la propria volontà o partecipazione, non c’è una responsabilità morale soggettiva e la persona non si trova in una situazione di peccato, di rottura, cioè, della sua comunione con Dio e con la Chiesa (cf. FC 83s). Ma anche se l’incompiutezza del matrimonio non fosse una colpa soggettivamente imputabile, essa resta un male e come tale non la posso chiamare vocazione. D’altronde, quando leggiamo nella recente esortazione Amoris Letitia che «la Chiesa ritiene che ogni rottura del vincolo matrimoniale è contro la volontà di Dio» (AL 291) non leggiamo niente di diverso di quello che Gesù afferma nel Vangelo (cf. Mt 19, 4). E non potremmo dire qualcosa di diverso senza tradire la Verità, perché la Chiesa non è padrona della dottrina ma è custode ed interprete fedele di ciò che gli è stato trasmesso dal suo Maestro.

Evidentemente, nella misura in cui nulla sfugge a Dio e nulla accade senza che Dio lo permetta, in queste situazioni di vita c’è una permissione di Dio che rimane a noi misteriosa; tale permissione talvolta è dovuta alla nostra libertà, altre volte è permessa, ma non direttamente voluta, in vista di un bene superiore, come spiega S. Tommaso (S. Th., I, q.19, a.9; cf. CCC 311), ma tale permissione di Dio non significa che questo fosse il Suo disegno originale o che sia un bene oggettivo.

Concludendo, la parola vocazione è da riservarsi al piano di Dio che chiama l’uomo al bene. L’agire dell’uomo (e gli errori che egli compie) non possono essere chiamati vocazione anche perché questo significherebbe che è l’uomo stesso ad indicarsi il suo fine, sarebbe l’uomo che chiama sé al progetto che ha in mente. La separazione dei coniugi è frutto dell’agire dell’uomo non del volere di Dio. E sulla vedovanza, dalla cura che la Chiesa primitiva aveva per chi restava vedova, non ne deriva in alcun modo che questa fosse una vocazione, altrimenti, visto che la Chiesa primitiva aveva cura dei poveri, ne deriverebbe che anche essere povero in senso economico sia una vocazione. Certo, il buon pastore, che va in cerca della pecorella che si è smarrita, non cesserà di trovare nuovi modi per soccorrere l’uomo di ogni tempo ed è in questo orizzonte che la Chiesa cerca di comprendere come accompagnare queste dolorose situazioni, come si evince anche leggendo Amoris Letitia (cf. AL 291).

L’uomo, ferito dal male e dalle sofferenze della vita, sempre può offrire questo suo dolore in unione con i patimenti di Cristo, come insegna l’Apostolo Paolo «sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24). Tale offerta di vita, anche nello stato di vedovanza e di separazione non voluta, accoglie la redenzione di Cristo, concorre al bene della Chiesa ed eleva l’umanità verso Dio. 

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