EDITORIALE - Si è svolto la scorsa settimana a San Romano l’annuale convegno catechistico diocesano, che ha avuto come tema centrale la dimensione comunitaria della catechesi. I numerosi partecipanti hanno avuto l’occasione non solo per confrontarsi sulla necessità della presenza della comunità nella trasmissione della fede, ma anche per ribadire l’importanza della missione dei catechisti in una chiesa impegnata a uscire fuori, a portare l’annuncio del Vangelo fino alle periferie esistenziali.
Non si tratta ora di approfondire l’espressione «periferie esistenziali», bensì di fare alcune riflessioni sulla figura del catechista e sulla rilevanza della sua missione.


Cominciamo con il racconto di un’esperienza. Qualche anno fa un missionario comboniano, Padre Renato Sesana, che operava negli slums di Nairobi in Kenya e nei villaggi del Sudan, ha riferito nel suo libro intitolato Io sono un Nuba di un episodio carico di significato. Una volta riuscito a raggiungere i monti Nuba, una sperduta regione montuosa nel centro Sudan sottoposta a lunghi anni di isolamento e di guerra, rimase colpito dall’incontro con alcuni catechisti che erano riusciti a mantenere viva la fiamma della fede in luoghi da dove erano stati cacciati i sacerdoti e i religiosi. «Quella sera Paul e i suoi discepoli», ha scritto il missionario, «sono rimasti svegli a lungo, alla luce della luna, per raccontarmi la storia della loro comunità, per parlare di come ridare speranza e recuperare alla vita cristiana la ragazza che era stata violentata in prigionia, come nutrire la fede di un piccolissimo gruppo di cristiani che vivono a sei giorni di cammino dalla comunità più vicina». La cosa che colpiva, secondo Padre Renato, era la testimonianza semplice, gioiosa e appassionata per il Vangelo che traspariva dalle loro parole e che trasmettevano alla propria comunità.
Recentemente Papa Francesco, in un messaggio ai partecipanti al I° simposio internazionale sulla catechesi tenutosi a Buenos Aires, ha tracciato una sorta d’identikit del catechista. Essere un catechista «non è un lavoro», ma è «una vocazione di servizio nella Chiesa». Per questo il catechista deve far risuonare la gioia di «quel primo annuncio o “Kerygma” che è il dono che gli ha cambiato la vita», non partendo dalle proprie idee e dai propri gusti, ma camminando «da e con Cristo» e ponendo al centro «l’incontro con la Parola e i sacramenti». In questo cammino il catechista deve essere «creativo» e senza paura. Deve, cioè, cercare «diversi mezzi e forme per annunciare Cristo», sapendo «”cambiare”, adattarsi, per rendere il messaggio più vicino, benchè sia sempre lo stesso, perché Dio non cambia, ma rende nuove tutte le cose in Lui».
Giunti a questo punto, che cosa si può dire della figura del catechista? Il catechista fa risuonare nella comunità la gioia dell’annuncio della fede, «è messaggero gioioso, custode del bene e della bellezza che risplendono nella vita fedele del discepolo missionario».

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