libro 04

DALLA DIOCESI - Una fedele della mia parrocchia mi ha parlato di una discussione avuta con un amico che si dice ateo. Questi l’ha provocata: “Ma come fai a credere in Qualcosa che non vedi?”. Questo è senza dubbio uno degli argomenti principali della non credenza, dai tempi dell’apostolo Tommaso fino ai nostri giorni. Argomento reso oggi ancor più efficace dagli straordinari successi delle scienze sperimentali, che ci hanno messo in grado di “vedere” e spiegare molte più cose rispetto al passato. Quella parrocchiana ha risposto all’amico non credente facendogli giustamente notare che lui stesso crede in diverse cose che non vede, ad esempio nell’amore dei suoi familiari. Al che l’amico ha ribattuto dicendo che l’amore, anche se non lo vede direttamente, lo può riconoscere attraverso i gesti dei suoi cari.


Eccoci al punto! Anzitutto dobbiamo ammettere che ci sono cose, anche importanti per la nostra vita, che non possiamo vedere né misurare. Questo deriva in alcuni casi dalla natura delle cose stesse. In molti casi dipende dall’inadeguatezza dei nostri sensi. Negarlo significherebbe incorrere nell’errore di un ipotetico ittiologo che giungesse alla conclusione che non esistono pesci di lunghezza inferiore ai 5 centimetri, ignorando che quelli più piccoli sono in realtà sfuggiti alle maglie della sua rete. Ecco, i nostri sensi in molti casi sono una rete dalle maglie troppo larghe… Dobbiamo ammettere che gran parte della realtà sfugge ai nostri sensi. Di alcuni oggetti che sono fuori della nostra portata però possiamo avere una conoscenza indiretta, tramite i loro effetti. Se mancano anche questi segni indiretti, di quelle realtà invisibili e inafferrabili non avremo alcuna nozione e ne ignoreremo del tutto l’esistenza. Ma non è questo il caso di Dio! Un’idea di Lui ce l’abbiamo. Da dove proviene?
Non lasciamoci ingannare dalle raffigurazioni troppo grossolane del divino, inevitabilmente legate a immagini del mondo naturale o sociale. L’idea di Dio, nella sua forma più pura, sfugge ad ogni rappresentazione. Ogni analogia rimanda a una dissomiglianza più grande, a qualcosa di ineffabile di cui l’uomo trova dentro di sé l’impronta, la traccia, nella sua ragione e nella sua volontà. Dio infatti non è un essere fra i tanti ma il fondamento stesso dell’essere, del nostro comprendere e del nostro decidere. Da millenni, generazioni di uomini e donne sono convinte di riconoscere l’impronta e l’agire di Dio nella propria coscienza e nel mondo. Così come l’amico ateo è convinto ragionevolmente di riconoscere l’amore dei suoi familiari dai loro gesti.
Proiezione!, obietterà l’incredulo riecheggiando Feuerbach. Quando l’uomo ingenuamente parla di Dio, in realtà parla di se stesso! Ma questo equivarrebbe a dire che l’uomo rimane intrappolato nella gabbia dell’io, incapace di dire nient’altro che la propria essenza assoluta e infinita. Che presunzione! In realtà, noi sperimentiamo un’apertura autentica all’altro, ad esempio, nell’amore. Quando amiamo veramente non proiettiamo il nostro ideale sulla persona amata, ma la accogliamo con la sua novità, quale essa è, con la sua irriducibile alterità. Così ci rendiamo conto che la nostra conoscenza e la nostra volontà non si esauriscono in noi stessi, né tantomeno si compiono nel futuro ideale dell’umanità, che anzi, la storia ce lo insegna, troppo spesso tende a regredire a uno stadio bestiale di violenza e malvagità.

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