DALLA DIOCESI - Di seguito, come promesso la scorsa settimana, riportiamo integralmente la prima lettera inviata dal sacerdote sanminiatese Luigi Pacchiani a Vincenzo Gioberti. Si tratta di una missiva di estrema importanza che vogliamo contestualizzare brevemente. Vincenzo Gioberti, uomo politico, filosofo e sacerdote, era stato ministro nel 1848 e presidente del Consiglio nel Regno di Sardegna. Prima ancora era stato incarcerato, processato ed esiliato dal Piemonte perché accusato di aver preso parte alla congiura mazziniana del 1833. Visse a Bruxelles e Parigi. Perorava inizialmente una soluzione federalista al problema dell’unità di Italia, sotto l’egida morale del Papa. Le sue idee neoguelfe sfociarono in una delusione verso il progetto di unificazione portato avanti invece dai Sovoia, incuranti delle idee giobertiane. Tra il 1846 e il 1847 Gioberti sfoga le sue delusioni politiche nei cinque volumi de "Il gesuita moderno", ben presto messi all’indice perché considerati l’espressione massima della campagna antigesuitica in Italia.

La Compagnia è accusata (non a torto) di essere uno dei principali ostacoli alla realizzazione dell’unità nazionale, anche di soluzione neoguelfa. Si parla esplicitamente di gesuitismo politico e si designa la Compagnia di Gesù come «la milizia […] più fida alleata e complice dello straniero». L’abate Pacchiani, nella lettera che segue, tenta in tutti i modi di far rientrare Gioberti nella strada indicata dal Pio IX in persona, che aveva chiesto in una udienza del 1848 di promuovere subito correzioni e modifiche all’opera. Le modifiche non arrivarono e anzi Gioberti, noncurante delle parole del Papa pubblicò l’ "Apologia del Gesuita moderno".

IL TESTO DELLA LETTERA

Illustre Gioberti, Non per vaghezza di mercare le vostre lodi, ma per tributare il debito omaggio alla giustizia e alla carità, vi rendo inteso di aver fatto accorto il cardinale di Ferrara, come le due citazioni del vostro Gesuita Moderno inserite nell’indirizzo al Pontefice dal Consesso d’Imola erano state estratte alla maniera curcesca. Egli si è degnato di farmi rispondere in questa sentenza: "Ho il bene di rispondere per parte del mio Eminentissimo alla pregiata Lettera che si è compiaciuto di dirigergli in data del 22 corrente (gennaio). L’em.za sua ha sentito con sorpresa la verificazione da Lei fatta delle mutilazioni e false interpretazioni date alla più parte delle preposizioni del rinomato autore citate dal suo avversario. E desideroso di prender lume in cosa di tanto rilievo per dar quei passi che la giustizia e la verità richiedono, sarebbe a pregarli di trasmettergli per maggiore sollecitudine il faticoso lavoro che Ella ha già portato a termine sull’Opera di cui parla (La Divinazione), come altresì d’indicargli in particolare le inesattezze da Lei rinvenute nelle Citazioni dei Vescovi che Ella accenna, mentre non si sa trovare che uno sbaglio di stampa, essendosi dal tipografo detto chiusa o chiesa invece di chiosa. Del che anticipandole io per sua parte, i dovuti ringraziamenti, passa a segnarmi con tutto l’ossequio. Ludovico Borelli Caudatario". Ho soddisfatto alla seconda richiesta del Cardinale, e l’ho fatto in modo, a tutela della vostra fama si che se non fosse presunzione, direi con Farinata - plaudendo a me stesso - esser io stato colui, che la difese a viso aperto -. Quanto a trasmettergli il mio faticoso e lungo lavoro, ho promesso di soddisfarlo al più presto: e mi ci occupo giorno e notte per renderlo completo e pulito. Sospendete pertanto qualche vostro risentimento contro del Cardinale: il quale, come vedete, è in perfetta buona fede sul conto vostro. In seguito vi terrà ragguagliato in proposito: e se gradite il mio scritto, avvisatemi di qual mezzo potrò valermi, onde farvelo recapitare con sicurezza. Illustre Gioberti: io mi adopero tanto per voi! Or dunque vorrete negarmi il favore di fare alcunché per amor mio? Ebbene: confortate tutti i vostri imparziali e amorevoli ammiratori: non ci contristate più lungamente col vostro silenzio: e inviate, ve ne preghiamo, inviate al Pontefice un atto di ragionevole ossequio, di che non gli furono avari gli altri due sommi italiani Rosmini e Ventura. Voi sapete farlo senza cessar d’essere grande; ed io ne affretto coi voti il momento, mentre ho l’onore di protestarmi. Lari in Toscana, 24 febbraio 1850. Vostro aff.mo serv. Preposto Luigi Pacchiani.

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