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SAN MINIATO - Con l’inizio dell’anno scolastico anche nel territorio della diocesi si è acceso il dibattito sull’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado di insegnamenti ispirati ai cosiddetti “studi di genere” il cui fine, così come viene enunciato nel decreto legge sulla Buona Scuola, è quello di educare alla “parità di genere” e di contrastare la “violenza di genere” e ogni discriminazione.
Ciò che rende perplessi molti sono i presupposti che stanno alla base di un’operazione che di per sé avrebbe delle finalità buone. La stessa parola “genere” o il suo equivalente inglese “gender” viene usata in modo nuovo rispetto all’uso corrente e rimanda agli studi iniziati negli anni ’60, in ambito femminista, col fine di affermare l’uguaglianza assoluta tra l’uomo e la donna.


In questa prospettiva, col termine genere, secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ci si riferisce ai «ruoli, comportamenti, attività e attributi che una data società considera appropriati per gli uomini e per le donne e che sono nient’altro che un costrutto sociale, dei cosiddetti stereotipi di genere». Ad esempio, ci sarebbero mestieri, linguaggi, sensibilità tipicamente maschili e tipicamente femminili.
Lo stesso ruolo paterno e materno e lo stesso concetto di famiglia naturale sarebbero quindi soltanto costruzioni sociali e stereotipi, che in realtà possono cambiare e assumere forme e funzioni diverse col mutare della società e della cultura.
Alla base dei gender studies c’è l’idea che il sesso biologico sia irrilevante nella scelta del genere a cui appartenere, per cui anche maschile e femminile diventano concetti fluidi e interscambiabili.
Una volta eliminato lo schema maschile-femminile, viene meno anche l’idea stereotipata di famiglia.
Di conseguenza non si parla più di famiglia, ma di famiglie, mentre il padre e la madre diventano il genitore 1 e il genitore 2, oppure indistintamente figure genitoriali.
Uno dei risultati di questa visione antropologica è lo scollegamento della generazione dei figli dal rapporto sessuale tra maschio e femmina, reso possibile dalle moderne tecniche di procreazione assistita e gestazione surrogata.
I corsi scolastici mirati a contrastare la discriminazione di genere o il bullismo omofobico sono visti da alcuni come l’inizio di un cambiamento della visione antropologica a tutti gli effetti epocale.
Sono da considerare d’altra parte i risultati degli stessi «studi di genere» che hanno dimostrato l’importanza della biologia nella percezione di sé, al punto che difficilmente il “maschile” e il “femminile” si potranno considerare semplici costrutti sociali.
La storia stessa dimostra, come nel tragico esperimento del dottor Money, che quando si è tentato di prescindere dalla condizione genetica allevando dei bambini imponendo loro gli stereotipi del sesso opposto e anche sottoponendoli a trattamenti ormonali e chirurgici, i risultati sono stati disastrosi.
Senza negare l’influsso della società e della cultura nello sviluppo dell’identità personale e di genere, è documentata anche una resistenza della biologia rispetto ad ogni tentativo di condizionamento sociale e culturale.
Di fronte a fenomeni così complessi e controversi, le perplessità non ci paiono del tutto ingiustificate. E viene da chiedersi se davvero, per contrastare il bullismo e le discriminazioni, sia necessario introdurre un concetto, come quello del genere, che si inserisce come un cuneo divaricante, tra natura e cultura.

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