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SAN MINIATO - Il prossimo 29 novembre ricorrerà il primo anniversario della morte di don Luciano Marrucci. A lui la rivista «Erba d’Arno», nel numero 144-145 (2016) ha dedicato un bel ricordo a firma di Carlo Lapucci che ne tratteggia con sensibilità il profilo e offre una breve bibliografia ragionata delle sue opere. Riportiamo qui alcune commoventi pennellate con cui Lapucci ritrae la figura e il carattere dell’amico: «Luciano era fatto come la sua casa a Moriolo. Quando l’incontrai viveva solo: un mondo dal quale era bandito l’ordine, la convenzione, dove ogni cosa occupava il posto che le pareva, senza che il padrone la costringesse a stare dove sarebbe stato naturale cercarla. Fu per me una sorpresa solo iniziale perché ben presto fu chiaro che l’ordine naturale delle cose non era stato abbandonato per faciloneria o trascuratezza, ma per una scelta, se non precisa, determinata e cosciente, di una vita secondo valori che stanno al di là di molte di quelle convenzioni che ordinano e conformano l’assetto comune e convenzionale della quotidianità delle persone.

Lo vidi come un pensatore antico: dimentico delle convenzioni del mondo, delle regole artificiose, delle opportunità utili, andava cercando la verità nelle cose della vita e della realtà come Diogene con la sua lanterna andava cercando il vero uomo. C’era in lui quel disincanto, quell’ironia sottile, e anche quella sfiducia verso quanto si presentava come autenticità garantita dalla fama, dal successo, dall’autorità, dal potere, dalla presunzione e dalla prepotenza. Tutto però non aveva intenti di ribellione, di rivoluzione e neppure i contestazione, poiché la vera rivoluzione dell’uomo era per lui persuadersi di quello che gli dice la coscienza e i dati della sua sincera e limpida ricerca. Gli scorni ai quali andava incontro al momento che il mondo non obbediva più ai suoi desideri (tra l’altro non trovava le cose, dimenticava gli appuntamenti, non gli tornavano i conti, gli oggetti non rispondevano ai nomi, e nemmeno le persone) li prendeva con quel suo sorriso indescrivibile di uno che guarda tutto da molto lontano e gioisce nel vedere quanto siano amabili il mondo, la vita e l’umanità quando non sono ingabbiati tra le sbarre dell’utile, del comodo della regola: di ciò che è e sta senza etichette come posato nel tempo. Un tipo così non poteva amare che un animale: la capra che è la bestia più mite, più affettuosa e, al tempo stesso, bizzarra, indipendente, inquieta, vitale, capricciosa al punto d’avere dato il nome al capriccio stesso. Ne teneva due nello stabbiolo, le visitava, le carezzava, ci parlava, le lasciava scarrozzare libere, rimettendoci l’orto e le piante, senza minimamente prendersela dei danni, perché, se una capra non fa danno che capra è? Poteva Luciano discorrere con un’arnia di api, tutte incasellate nelle celle esagonali, precise, laboriose, puntuali con tanto di leggi e regina? Con le capre si trovava bene al punto che le prendeva anche in giro senza sdolcinatezza d’animalista contemporaneo, perché le trattava comunque da animali. Al tempo stesso le vedeva come bestie misteriose: camminando sulla loro pelle - diceva - era passato tutto il messaggio della Salvezza: la Parola di Dio». I

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