fotoveglia2La tradizione di trascorrere in preghiera la notte tra il sabato e la domenica di Pasqua è antichissima. Già Tertulliano (+ ca. 230) ne parla come di un uso di cui s’ignora l’istituzione e dal quale nessuno può esimersi. Sant’Agostino, poi, ci ricorda che «La Veglia di questa notte ha un'importanza così grande che da sola potrebbe appropriarsi come nome proprio, il nome comune anche alle altre veglie. Celebriamo, vegliando, quella notte, in cui il Signore è risorto e nella sua carne ha inaugurato per noi quella vita [...] nella quale non vi sarà più né morte alcuna, né sonno» (Sermo 340/A). In questa sede non possiamo che dare solo alcune leggerissime pennellate riguardanti la celebrazione della Veglia pasquale. Soprattutto ci soffermeremo sul momento iniziale della benedizione del fuoco e del cero, quella che il Messale chiama “Lucernario”, perché possa essere stimolo che introduca alla comprensione della bellezza e della ricchezza di questa Notte Santa.

Le Norme generali per l’ordinamento dell’anno liturgico e del calendario al n. 21 affermano: «La Veglia pasquale, durante la notte in cui Cristo è risorto, è considerata come la “madre di tutte le Veglie”. In essa la Chiesa attende, vegliando, la Risurrezione di Cristo e la celebra nei sacramenti. Quindi la celebrazione di questa sacra Veglia si deve svolgere di notte, cosicché cominci dopo l’inizio della notte e termini prima dell’alba della domenica».

Il porre la veglia di notte dice di un’apparente vittoria del buio: è la selva oscura di Dante nel quale l’uomo perde il cammino ed è disorientato; è l’impero delle tenebre, degli inferi che, con catene e chiavacci, lo tiene prigioniero. Proprio questa oscurità, per mezzo della croce, è visitata da Cristo e dunque rischiarata da una luce inattesa: il fuoco nuovo che all’inizio della Notte Santa viene benedetto.

Non a caso la liturgia bizantina raffigura la Pasqua di risurrezione con l’icona di Gesù che discende nell’Ade, accompagnandola con le parole del Commento al Vangelo di Giovanni di Origene: «fiaccola portatrice di luce, la carne di Dio, sottoterra dissipa le tenebre dell’inferno. La luce risplende fra le tenebre».

Il fuoco nuovo veniva acceso esclusivamente per mezzo di un acciarino, secondo un uso introdotto dai monaci irlandesi a cavallo tra VII e VIII secolo. Proprio questa prassi riecheggia nell’orazione di benedizione presente nel messale di Giovanni XXIII, che ci parla di Cristo, pietra angolare, il quale, come scalfito dalla croce, dona al mondo la scintilla di un fuoco nuovo.

Questo momento iniziale parrebbe avere le sue radici nella liturgia di Gerusalemme, come ci è testimoniato a partire dal V secolo. Sappiamo che la Basilica del Santo Sepolcro comprende le due più antiche basiliche del Martyrium – sorta accanto al Golgota – e, di fronte, la Basilica dell’Anastasis, ossia della resurrezione. Prima dell’inizio della Veglia il vescovo usava trarre fuori dal Martyrium un cero acceso e con esso processionalmente raggiungeva la Basilica dell’Anastasis dove, accese le altre luci, aveva inizio la celebrazione. La fiamma che esce dal Martyrium acquista un carattere sovrumano, divino, tanto più che, da alcune testimonianze della Spagna e della liturgia di Milano, sappiamo che essa doveva comparire improvvisamente, da un luogo nascosto.

Altro momento significativo è la preparazione del cero pasquale. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «Tutta la vita di Cristo è libera offerta al Padre per compiere il suo disegno di salvezza. Egli dà “la sua vita in riscatto per molti” (Mc 10,45) e in tal modo riconcilia con Dio tutta l'umanità» (n. 119). La salvezza operata da Cristo ha un carattere universale, cosmico; in Lui Dio ha riconciliato tutto il mondo a sé (2Cor 5,19). Questo mistero che travalica il tempo e la storia è inscritto nello stesso cero pasquale, dopo la benedizione del fuoco. A queste parole: «Il Cristo ieri e oggi: Principio e Fine, Alfa e Omega. A lui appartengono il tempo e i secoli. A lui la gloria e il potere per tutti i secoli in eterno», si possono incidere nella cera la croce, la prima e l’ultima lettera dell'alfabeto greco e, infine, le cifre dell'anno, a significare che l’universale salvezza di Cristo opera qui ed ora.

Benedetto il fuoco nuovo, accesi il turibolo e il cero, si entra nella chiesa che, ad ogni nuovo incedere di quest’ultimo, alle parole «Lumen Christi», s’illumina sempre di più, fino a che il cero stesso non è posto sul candelabro. A questo punto inizia il canto dell’Exultet: «Esulti il coro egli angeli, esulti l'assemblea celeste: un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. 

Gioisca la terra inondata da così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. 

Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore, e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa».

La benedizione del fuoco, l’accensione del cero e il canto dell’Exultet sono preludio a tre momenti successivi: l’ascolto delle scritture intercalato da orazioni e dal canto di salmi, la celebrazione del battesimo e, infine, il sacrificio eucaristico. Nella Notte Santa si celebra la Pasqua cosmica:siamo invitati e introdotti alla contemplazione del disegno di salvezza di Dio che si compie totalmente nella Pasqua di Cristo. Si celebra la Pasqua storica attraverso l’ascolto delle grandi tappe della storia della salvezza. In questa salvezza noi stessi siamo inseriti per mezzo del battesimo e dell’eucaristica. Diveniamo parte di un cammino che ci precede e ci accompagna, di una realtà che diviene fonte e culmine.

Il vegliare in questa notte ci invita a contemplare la vittoria di Cristo e ci rende coscienti che essa può essere la nostra vittoria, siamo chiamati a far nostro il passaggio- la Pasqua – di Cristo dalla morte alla vita. In proposito - accostando i numerosi sacramentari che, a partire dal VII secolo e per tutto il Medioevo, hanno collezionato, arricchito e tramandato la ricca tradizione liturgica occidentale - è significativo notare come ci si muova tra il considerare la Veglia di Pasqua una celebrazione del sabato santo e il ritenerla, invece, della domenica. Non si tratta di errore, né di sbagliata considerazione, è soltanto il carattere particolare della celebrazione in questione a lasciare quasi indeciso il luogo preciso della sua collocazione: tra la dolorosa memoria del venerdì, la silenziosa attesa del sabato e l’esplosione di gioia della domenica, la solenne Veglia ci dice di un passaggio dalle tenebre alla Luce. Infatti: «Il santo mistero di questa notte sconfigge il male,lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori,la gioia agli afflitti» (Dal preconio pasquale).

«Dall’inizio alla fine dei tempi, tutta l’opera di Dio è benedizione. Dal poema liturgico della prima creazione ai cantici della Gerusalemme celeste, gli autori ispirati annunziano il disegno della salvezza come una immensa benedizione divina» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1079); questa benedizione di Dio discende a noi in maniera piena e definitiva per mezzo di Cristo che «apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 7-8), perché, in Lui, l’uomo impotente possa ascendere ed entrare nella salvezza. La gioia grande, che dalla Pasqua scaturisce, si protrae, così, nelle settimane successive fino a giungere alla Pentecoste, preceduta dalla solennità dell’Ascensione, laddove la colletta ci esorta in questo modo: «Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo».

Speranza che troverà il suo pieno compimento nell’ultimo giorno: non è un caso se una pia tradizione orientale riteneva che il ritorno finale del Redentore dovesse avvenire nella notte anniversario della sua resurrezione. È radicato qui il senso stesso del vegliare; siamo in attesa dello Sposo, così come ci richiama il Messale: «Per antichissima tradizione questa è la notte di veglia in onore del Signore (Es 12,42). I fedeli, portando in mano, secondo l’ammonimento del Vangelo (Lc 12,35 ss), la lampada accesa, assomigliano a coloro che attendono il Signore al suo ritorno in modo che, quando egli verrà, li trovi ancora vigilanti e li faccia sedere alla sua mensa» (p. 161).

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