Strage z1

SAN MINIATO -  Settantaquattro anni! Tre quarti di secolo e 55 nomi graffiati col sangue nel marmo. Il tempo è un pozzo, un precipizio che ingoia ricordi e sentimenti. Ogni anno San Miniato, la Diocesi di San Miniato, l’Amministrazione comunale di San Miniato, ingaggiano una loro personale «Resistenza» contro lo scempio che l’oblio, per legge di natura, procura a tutte le cose umane: questa particolare «Resistenza» si esercita nel ricordo dei morti del Duomo.

Come trasparente espressione della «banalità del male», la guerra arrivò sfacciata anche nel tempio più santo della città. Arrivò alle ore 10.00 di quel 22 luglio 1944. Faceva caldo, c’era il sole, c’era la vita.

Da allora - ogni anno - il 22 luglio per San Miniato è sacro.

Da allora - ogni anno - si fa memoria di questi caduti, di questi concittadini, di questi fratelli.

Anche quest’anno il nostro Vescovo, il sindaco di San Miniato, il vice prefetto di Pisa e le autorità militari, hanno coralmente interpretato il dovere della giustizia, restituendo un nome e un volto ai cinquantacinque della Cattedrale di San Genesio.

Il sindaco Gabbanini ha letto - come si fa allo Yad Vashem di Gerusalemme, come si fa al Museo della Pace di Hiroshima - i loro nomi. Adagio, solenne, quasi a voler scalfire il silenzio che avvolgeva la sacra litania: Antonini Eletta, Antonini Teresa, Arzilli Giuseppe, Barusso Sergio, Bellini Benedetta, Bertucci Giuseppe, Bonistalli Livia, Brotini Emilia, Brotini Silvana… Già!… Silvana…

Silvana aveva solo 14 anni e chissà quali rutilanti attese di fanciulla sono state schiantate, in un baleno, dal quel proiettile, sacrilego “effetto collaterale” di quei giorni. «Sono angeli color di cilestro, in compagnia del Gran Navalestro, nel cielo cremisi, quei martiri nostri», recitava per le vittime del Padule di Fucecchio il nostro Enzo Fabiani.

Quest’anno poi la commemorazione era carica di attese, dato che di lì a due giorni, il 24 luglio, anniversario della liberazione di San Miniato, sarebbe stato inaugurato il Museo della Memoria. Museo che - possiamo dirlo - segna un punto di arrivo nella dialettica cittadina sulla Strage, convergendo risolutamente verso una pacificazione della memoria. In questo senso, un particolare apprezzamento meritano i curatori dell’allestimento, per le parole che hanno scelto di utilizzare nei pannelli esplicativi riguardo al Vescovo Ugo Giubbi. Parole misurate, sagge, accuratamente ponderate sulla bilancia della verità storica. Parole che restituiscono a Monsignor Giubbi la sua giusta dimensione di pastore innocente e di uomo travagliato, lacerato per le percosse inferte al suo gregge.

Il Vescovo Andrea nell’omelia per la messa di suffragio in Cattedrale, ha avuto parole alte, richiamando la filigrana della Parola di Dio offerta dalla liturgia del giorno: «Il ricordo della Strage non si spegne, non si deve spegnere! Ancora invoca la nostra preghiera, la solidarietà, la determinazione a cercare le vie del perdono e della pace. Proprio il vangelo sottolinea, in questa domenica, l’atteggiamento del Signore verso i suoi che tornano affaticati dalla missione dell’annuncio e verso il popolo tutto: “Vide una grande folla, ebbe compassione di loro”. […] La compassione di Gesù ci racconta qualcosa dello sguardo di Dio sulla storia umana, su noi suo popolo. È proprio la compassione di Gesù, l’incandescenza del suo cuore, che ci consegna il paradigma per leggere e interpretare le drammatiche vicende della Seconda guerra mondiale, degli scontri fratricidi che avvennero nelle nostre campagne e della strage della nostra Cattedrale. Questa compassione si presenta a noi come chiave interpretativa del nostro tempo, dei travagli della nostra storia attuale con le sue impenitenti contraddizioni.

Non abbiamo che la compassione di Gesù - e la nostra – da rivolgere ai caduti, a questi nostri 55 fratelli e sorelle. Gente innocente, giovane, umile, laboriosa. Gente in cerca di salvezza, di pace, di sicurezza… Ha trovato invece la violenza e l’odore del sangue.

Non c’è giustificazione alcuna alla guerra e alle atrocità commesse e non esiste una posizione alla quale si possa attribuire la ragione. La guerra, sempre, è violenza immotivata, scena in cui i diritti umani vengono calpestati, rombo di prepotenze e di sopraffazione. E così anche in questo nostro Duomo è passata la morte».

Il Vescovo Andrea ha voluto richiamare un dialogo dalla “Masseria delle allodole”, spettacolo sul genocidio degli Armeni, andato in scena in quegli stessi giorni sul prato del Duomo: «La guerra è un evento semplice, naturale. La pace è sempre stata sopravvalutata, è il regno delle possibilità. Ma solo la guerra ti conduce in quello delle necessità. […] Questa – colonnello - è fedeltà: agire pur non comprendendo”» portando a termine l’orrore.

Le parole finali di Monsignor Migliavacca consegnano però una generosa dimensione di Speranza: «La compassione con cui Cristo guarda a queste nostre vittime del Duomo è promessa di vita, di resurrezione e di riconciliazione. Dalla strage del Duomo e dalle contraddizioni e ingiustizie di oggi, lo sguardo buono di Gesù racconta che Lui crede ancora in noi, nel nostro essere umani. E potete esser certi che, adesso e sempre, Egli continua a voler scrivere la Sua storia insieme a noi».

Torna qui in mente l’ultimo Sant’Agostino, quello che dagli spalti fortificati della sua Ippona attendeva l’arrivo dei barbari: «Viviamo tempi cattivi, tempi penosi, si dice. Ma i tempi siamo noi. Cerchiamo di vivere bene e i tempi saranno buoni; come siamo noi così saranno i tempi».

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