I vili attentati che hanno insanguinato Parigi lo scorso venerdì 13 novembre hanno risvegliato la vis polemica di numerosi commentatori che sono tornati ad attribuire alle religioni un ruolo primario nel creare divisioni, fomentare l’odio, diffondere terrore e ignoranza, arrivando a giustificare l’omicidio nel nome di Dio.
La religione, non solo quella islamica ma anche tutte le altre, incluso il cattolicesimo, è diventata così il capro espiatorio su cui gettare l’onta di tanta violenza che ha colpito la civilissima e laicissima Francia.
Viene da chiedersi però se la chiave di lettura della guerra santa o del jihad sia adeguata per interpretare gli attacchi dei terroristi affiliati allo Stato islamico.
Nonostante la retorica della guerra ai nuovi «crociati», che i jihadisti identificano con le grandi potenze occidentali, i principali obiettivi colpiti in Europa non avevano una connotazione specificamente religiosa: uno stadio, una sala da concerto, alcuni locali di ristoriazione, la sede di un settimanale.
Il credo islamico sembra più che altro un pretesto per giustificare atti di guerra che hanno altri obiettivi. E se il Santo Padre ha affermato che «Giustificare la violenza col nome di Dio è una bestemmia», a lui si sono uniti in Italia e nel resto del mondo anche molti fedeli musulmani che hanno ribadito l’estraneità della loro fede agli orrori del terrorismo.


Quello che è stato colpito in realtà sono le nostre sicurezze quotidiane, acquisite in ormai sessant’anni di pace, almeno a livello europeo. Ciò che è venuto a turbare la nostra routine è arrivato da lontano, da quei luoghi dove invece la routine è la guerra, il terrore dei bombardamenti, la povertà affiancata all’ingiustizia sociale e all’oppressione.
Quello che è successo a Parigi riporta brutalmente l’attenzione sulle vicende geopolitche del Medio Oriente, un’area che è storicamente fonte di conflitto continuo tra le grandi potenze, in particolare a causa della posizione geografica strategica, che è un naturale ponte tra Oriente e Occidente. Una terra ricca di risorse energetiche, il cui sfruttamento rappresenta ancora oggi, e lo sarà sempre più in futuro, un business geopolitico mondiale.
Inoltre, l’area è caratterizzata da una fortissima instabilità, dovuta anche all’assenza di sistemi politici moderni che riescano a governare con continuità questi difficili Paesi.
La storia insegna che simili contesti aprono le porte alle insidie dei totalitarismi, siano essi di matrice ideologica o teocratica. Sembra evidente che lo Stato Islamico, oltre ad opprimere le popolazioni locali, a qualsiasi credo esse appartengano, attira con la sua «crudele semplicità» giovani provenienti da ogni parte dell’Occidente.
Nel mondo globalizzato e fondato sulla libera circolazione di merci, idee, informazioni e persone, queste vicende interessano anche noi, non solo dal punto di vista dell’indignazione e della condanna, ma anche per quanto concerne lo sforzo di comprensione e di risoluzione dei conflitti.
Stiamo entrando in un’epoca nuova in cui saremo chiamati sempre di più a confrontarci con una parte del mondo che sta vivendo un cambiamento epocale, che inluirà anche sul nostro stile di vita quotidiano. E in tutto questo la nostra fede sarà un elemento fondamentale nella ricerca del dialogo e nella vicinanza fraterna ad ogni uomo.

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