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DAL TERRITORIO - Ne hanno parlato tutte le testate locali: sabato 27 gennaio, a Scandicci, una partita di calcio giovanile (categoria Allievi -16 anni) tra il "San Giusto-Le Bagnese" (squadra locale) e i "Giovani Fucecchio 2000" è stata sospesa al 37’ del secondo tempo per rissa. Ben dieci baby-calciatori espulsi e 30 giornate complessive di squalifica comminate dalla giustizia sportiva. Quello che colpisce e rattrista è leggere la motivazione con cui il giudice sportivo ha sancito la squalifica per ognuno di questi dieci ragazzi. Per tutti la stessa frase: "condotta violenta verso un avversario".


Non è nostro compito entrare nel merito degli eventi, questo fatto ci fornisce tuttavia l’occasione per rilanciare una sana e vigorosa riflessione che aiuti a ritrovare la dimensione educativa dello sport (sia individuale che di squadra) e il suo profondo valore formativo per la persona; tematiche che una visione sempre più "efficientistica" e "consumistica" dello sport, tendono invece a comprimere e mortificare.
Non si rifletterà mai abbastanza su quanto lo sport - e certi sport in particolare - rappresentino una straordinaria metafora della vita e di quanto la loro pratica sottenda lezioni impagabili su come si sta al mondo. Pensiamo soltanto a quella patologica incapacità dei ragazzi di oggi a sostare nell’attesa: attesa del successo, del momento opportuno, del lavoro desiderato. Si tratta di un veleno verso il quale ogni sport (qualcuno di più, qualcuno di meno) produce il potentissimo antidoto pedagogico dell’invito al sacrifico e alla perseveranza, dell’essere resilienti (ossia resistenti ai rovesci improvvisi), del riflettere sull’assunto che non esistono "sconfitte" ma solo risultati, e che anche quella che appare come una sonante débâcle è in realtà un risultato sul quale riflettere, per correggere il tiro alla prova successiva. Lo sport educa e obbliga alla lucidità e alla freschezza mentale, a contattare energie e risorse insospettate, educa alla fantasia e contemporaneamente alla regola, al metodo e al raziocinio. Ma soprattutto ha il potere di farti sentire vivo e creativo, donandoti quell’autentico salvavita che è la "passione". Ti insegna che i risultati arrivano, ma solo dopo aver morso la polvere. Perché come ripete un celebre adagio relativo agli scacchi, per diventare campione del mondo devi aver perso almeno cento partite consecutive. Ecco, nello sport vale grosso modo lo stesso principio.
Sappiamo tutti quanto la sociologia risulti talvolta asettica nell’attribuire definizioni: ai ragazzi di questo esordio di XXI secolo (ossia nati dopo l’anno 2000), è stato assestato - quasi come un fendente - lo sbrigativo appellativo di "generazione Z". Si tratta praticamente della prima vera generazione di nativi digitali, figli della rete e dei tablet, quindi iperconnessi e multimediali, che mirano alla rapidità più che all’accuratezza in tutto ciò che fanno. La loro capacità di attesa è modellata sul tempo che intercorre tra un "click" e l’apertura della pagina cercata: tempi troppo rapidi per passare loro l’insegnamento che c’è una vita oltre quel "click" che gira esattamente al rovescio, che reclama semmai pazienza, attesa, noia e chiede talvolta di saper rimanere - come viatico per il successo - in sgradevole compagnia della frustrazione. Proprio per questi giovani lo sport rappresenterebbe un medium dotato dello straordinario potere di rivelare e insegnare loro la vita.
La generazione di mio nonno considerava il fare sport una deplorevole perdita di tempo, un’attività buona solo per facoltosi perdigiorno, che non avevano il problema di mettere insieme il pranzo con la cena. Questa generazione esprimeva la visione antropologica di una società contadina, precedente alla vertiginosa crescita economica degli anni ’50 e ’60; una generazione avvezza alla fatica e alla rinuncia. Si cresceva in fretta e niente era tollerato al di fuori del sacrificio nei campi o sui libri di scuola. Quello che la generazione di mio nonno - non per sua colpa - non coglieva, era proprio questo valore di formazione e di crescita che lo sport da sempre porta con sé. Liberato dalla malattia della competizione e del protagonismo, in esso fiorisce un retroterra che aiuta i ragazzi a maturare in leggerezza, divertimento e passione.
Ma lo sport che praticano i nostri giovani oggi è ancora un’attività generativa, ludica e soprattutto appassionante? Osservando bene, il fare sport a livello agonistico ha smarrito proprio i connotati ludici, finendo per assomigliare sempre più a una pratica tecnicamente programmata in ogni minimo dettaglio (si pensi al livello raggiunto dai moderni protocolli di preparazione atletica) e finalizzata soltanto alla competizione e alla prestazione. In questo senso lo sport ha assunto una dimensione "capitalistica" e non occorre scomodare, per accorgersene, le grandi società di calcio o il divismo di tanti loro multi-milionari calciatori che assomigliano più a "prime donne" di Hollywood che non ai vecchi fuoriclasse della palla di cuoio. In questo modo, oltre al senso della misura e del limite, si è snaturato anche il valore maieutico dello sport, diventato capace di aiutare un giovane ad estrarre la vena d’oro imprigionata nelle sue profondità emotive e psichiche. Neppure poi aiuta la marginalizzazione subita, nell’attuale prassi scolastica, dalle ore di Educazione Fisica. La tradizionale lezione di ginnastica era forse l’ultimo baluardo rimasto nei confronti di un edonismo asfissiante che ha investito ogni attività fisica, riducendola ai soli vantaggi estetici che se ne possono ricavare. Basti solo pensare al modo arrembante con cui certi adolescenti affrontano la palestra con il fine esclusivo di migliorare l’aspetto fisico. Il rischio è che il tutto si risolva in una sorta di implosione narcisistica, lasciando questi giovani incapaci di attivare una riflessione sui processi di maturazione interiore, cui pure la fatica e la disciplina della palestra inviterebbero. In questo modo lo sport viene ridotto ad una forma di banale consumismo: si fa sport solo se conviene, ignorando completamente il suo potenziale di straordinario "simulatore di vita".

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