Villa-Varramista

MONTOPOLI - A breve andrà alle stampe il secondo volume della collana “Historia Ecclesiae Miniatensis”, ma avendo avuto il privilegio di leggere in anteprima il manoscritto completo dell’opera, curata dal professore Silvio Ficini, già autore di numerose ricerche su Montopoli, vorrei dare un assaggio di quel che i lettori e gli appassionati di storia potranno trovare nel testo “Un parroco di campagna che istruisce il suo popolo: il pievano di Montopoli don Pietro Mori”.
La cornice del racconto è quella della splendida Villa di Varramista, di proprietà, all’epoca, del Marchese Gino Capponi.

Siamo a metà dell’Ottocento, e l’occasione dell’incontro tra lo scrittore milanese e il parroco di campagna – come si definiva – Pietro Mori (1818-1860) è la visita del romanziere milanese dell’ottobre 1852. Non si trattava solo di una visita di cortesia. La Villa di Varramista era diventata infatti meta di intellettuali. Erano ospiti frequenti diversi personaggi del tempo, tra cui Niccolò Tommaseo, e l’argomento principale delle discussioni era incentrato sull’uso della lingua italiana: in estrema sintesi, uno dei problemi più dibattuti era a quel tempo se si dovesse utilizzare nei testi letterari la “lingua d’uso” o se si dovessero cercare soluzioni “puriste”, ispirate al volgare trecentesco. Il problema della lingua non costituiva una semplice disputa accademica, ma era sempre di più finalizzato all’unità politica della nazione italiana.
Pochi amici ed ammiratori del Marchese, fra cui il Mori, erano stati invitati all’incontro con il celebre scrittore.
Qualche descrizione di quei salotti linguistici e letterari ci viene dallo stesso Manzoni che, scrivendo alla moglie, dice: «Gli altri invitati si limitarono ad ascoltare con avidità e riverenza i colloqui che ebbero luogo fra me e lo stesso Capponi. Superfluo è il dirvi che di poesia e romanzo storico non vi è più da far parola e che d’altro non fu questione quasi che di lingua e del Rosmini». E ancora, in un’altra lettera, Manzoni riferiva: «Sulla questione della lingua la discussione a Varramista ci fu senz’altro, ma non poté scendere in profondità, data la ristrettezza del tempo e la particolare situazione degli interlocutori».
Le diatribe linguistiche avevano come intermezzo lunghe passeggiate nel parco della tenuta che aveva più di cinque miglia di circuito e che, sempre dalle parole di Manzoni, è tutto «collinette con selve di pini, di lecci, di querci, di castagni, praterie, terre coltivate, attraversate da belle strade carrozzabili».
Il Mori conobbe Manzoni in quell’occasione e gli inviò subito dopo i suoi scritti, pubblicati anche dalla «Commissione fiorentina per la diffusione di buoni libri», accompagnandoli con una lettera personale, conservata nelle carte dell’archivio manzoniano di Milano. La lettera sarà pubblicata integralmente nel volume storico sulla nostra diocesi ma vorremmo concludere il nostro pezzo con qualche assaggio di quella missiva. Scrive don Pietro Mori all’autore dei Promessi Sposi: «Chiarissimo Sig.re Alessandro Manzoni […], se io considerassi soltanto la sua sapienza, non mi attenterei davvero di indirizzarle neppure un verso; poiché tanta è l’altezza, a cui essa La solleva fra i valentuomini dell’età nostra, che io oscurissimo e vivente in luogo oscuro non saprei da che parte rifarmi per avvicinarmi ad una cima di questa fatta. Ma se miro la bontà del suo animo, nota a chiunque e per le opere e per la fama, ne argomento tanta umanità, che tengo per sicuro, non abbia Ella a provar ripugnanza ad abbassarsi, per riguardare con amorevolezza anche i più piccini, che le vengono dintorno. Con tale confidenza io mi presento a Lei, e le faccio l’offerta di alcuni Discorsi Popolari, che sotto altro nome che il mio, sono stati pubblicati dalla Commissione fiorentina per la diffusione di buoni libri. Io le metto dinnanzi questi opuscoli come frutti ricavati, almeno in parte, dalla lettura delle sue dotte carte, e insieme come dimostrazione dell’affetto, che porto alla sua persona. Gli ho scritti, o almeno ho creduto di scriverli, in lingua viva, in quella bella che risuona sulla bocca del nostro Popolo». Era il 22 ottobre del 1855, prima cioè della seconda visita del Manzoni a Varramista, avvenuta nel 1856, quando una pattuglia di dotti scrittori della Penisola si ritrovò in Villa a discutere del nuovo vocabolario della lingua italiana. In pochi sanno – il libro di Ficini ne darà ampiamente conto – del ruolo avuto da un prete diocesano in questo decisivo momento per la storia d’Italia. Anche il pievano di Montopoli, compatibilmente con i suoi impegni religiosi, assisteva e partecipava ai lavori della compilazione delle varie voci del vocabolario, apportandovi il proprio personale contributo.

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