DALLA DIOCESI - Nessuno vive per se stesso e nessuno muore per se stesso”. Questo detto di San Paolo si dimostra vero non soltanto in riferimento a Cristo, e quindi alla fede, ma anche a livello semplicemente umano. Le nostre azioni e le nostre scelte non ci riguardano soltanto come singoli ma coinvolgono inevitabilmente gli altri e influiscono su tutta la società. Lo si è visto bene nelle scorse settimane, nella dolorosa vicenda di dj Fabo, strumentalizzata dai radicali per fare pressione politica. Se dj Fabo avesse considerato la propria vita degna di essere vissuta avrebbe affermato la dignità e l’intangibilità di ogni vita umana. Chiedendo di morire ha invece svalutato la vita di tutti. Lungi dal voler giudicare la persona e il suo drammatico vissuto, non si può fare a meno di notare la profonda contraddizione che sta alla base di certe presunte battaglie di civiltà: da una parte l’affermazione della libertà individuale, come se la vita fosse un bene che riguarda esclusivamente il diretto interessato; dall’altra il tentativo di estendere a tutta la società una deriva eutanasica. In questi giorni si discute in Parlamento la proposta di legge sul cosiddetto “testamento biologico” che costituisce il primo passo verso la “dolce morte”.
Fa venire letteralmente i brividi il punto riguardante i disabili e i bambini, la cui vita o morte dipenderà dalle decisioni di terzi: i genitori, il tutore. Al di là degli slogan e delle rivendicazioni ideologiche, la realtà concreta mette in luce che l’autodeterminazione del paziente è un’illusione. E lo si vede già chiaramente nei Paesi che hanno introdotto una legge sull’eutanasia. Certo, il “testamento biologico” in discussione alla Camera non introdurrebbe l’eutanasia, ma soltanto la libertà per il paziente di determinare anticipatamente le terapie e le cure che intende rifiutare qualora non potesse più esprimere il proprio consenso: ad esempio, in caso di coma o stato vegetativo persistente (SVP). Ma facciamo un esempio: vi sono alcuni casi in cui la vita di una donna è stata prolungata artificialmente perché potesse portare a termine una gravidanza, cioè fino al momento in cui il figlio sia stato in grado di vivere al di fuori del corpo della madre. Che dovrebbe fare il medico se per caso la donna avesse firmato un “testamento biologico” per rifiutare ogni forma di sostentamento vitale? Un testamento firmato quando la donna forse non prevedeva né di cadere in uno stato persistente di incoscienza né di rimanere incinta? Qualora le disposizioni del testamento biologico fossero vincolanti per il medico si manifesterebbe in tutta la sua perversione la logica dell’auto-determinazione ad ogni costo. Verrebbe meno il principio di uguaglianza, che si pretende sia alla base del testamento biologico stesso. In questo caso, si discriminerebbe un figlio, la cui vita varrebbe meno di quella di qualsiasi altro bambino. Si tratta di un caso limite che però fa emergere le contraddizioni insite in ogni progetto di legge che preveda la disponibilità della vita umana. Nessuno vive per se stesso. Chi afferma l’intangibilità della propria vita difende anche la vita di chi non può decidere.