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SAN MINIATO - Si è rinnovato anche quest’anno il tradizionale appuntamento a Palazzo Grifoni col regista dello spettacolo centrale del cartellone del Dramma Popolare. Un evento che da sempre si configura come vero e proprio seminario di riflessione su estetica e poetica del testo in scena e sulla sua riduzione drammaturgica. Quest'anno - com'è noto - ad essere rappresentato dal 19 al 25 luglio, sulla storica piazza del Duomo di San Miniato, sarà "La masseria delle allodole", tratto dall'omonimo romanzo di Antonia Arslan sull'olocausto degli Armeni nella Turchia di un secolo fa.

Introdotti dal presidente della Fondazione Dramma Popolare, Marzio Gabbanini, hanno preso la parola Gabriele Rizza, giornalista e critico cinematografico, Masolino D’Amico, direttore artistico del Dramma e il regista dello spettacolo, Michele Sinisi.
Nelle parole del presidente Gabbanini si rintraccia la sintesi della rotta ideale e culturale che il Dramma Popolare ha tenuto quest’anno, proponendo durante tutto l’inverno riflessioni di alto calibro sul tema del dialogo interreligioso. «Il Dramma Popolare - ha detto Gabbanini - è impegnato da tempo a trattare tematiche di stringente attualità, scuotendo le coscienze e stimolando interrogativi sul nostro presente, col sincero proposito di dare voce a tutte le voci».

Gabriele Rizza ha centrato l’attenzione sulle ragioni storiche della rimozione che il civile Occidente ha operato riguardo al genocidio armeno. La Turchia, dopo gli accordi di Yalta, divenne pedina chiave nelle strategie atlantiche di contrasto all’impero sovietico. Non conveniva irritare il buon alleato turco, sottoponendo all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, una riflessione sulla questione armena. E così il genocidio degli Armeni del 1915-1916, è stato passato per decenni sotto imbarazzante silenzio. Ragioni di cruda e cinica realpolitik insomma.
Rizza ha richiamato la complessità narrativa del romanzo della Arslan, sottolineando che anche i fratelli Taviani, nel trasporre il testo al cinema, hanno dovuto dare fondo a tutta la loro creatività e consapevolezza estetica, per non tradire troppo l’originale. Anche se alla fine «il film dei Taviani non entusiasmò poi più di tanto la Arslan, che pure aveva dato la sua benedizione alla sceneggiatura». 

Masolino D’Amico ha richiamato i motivi della scelta della "Masseria" come testo per il Dramma di quest’anno. Il primo e principale attiene al desiderio di omaggiare due illustri sanminiatesi come i Taviani, da sempre civilmente impegnati col loro cinema. La seconda ragione si condensa nell’intento di far emergere dagli scantinati della storia fatti su cui è costantemente all’opera un meccanismo di oblio e rimozione. Un dovere della memoria insomma, per restituire voce ai massacrati di tutti i tempi. D’Amico aggiunge poi un ultimo e significativo argomento: "con la "Masseria", siamo in presenza di un grande romanzo, di qualità letteraria indubbia", fatto che gli conferisce già naturaliter diritto di attenzione. 

Portare in scena un olocausto pone però problemi di difficile soluzione - basti pensare alle grandi scene di massa - risolvibili solo attraverso la resa simbolica, scarnificando e ammiccando riguardo alla complessità del reale.

E proprio muovendosi su questo ordine di considerazioni, Michele Sinisi ha guidato all’esplorazione della sua regia. Nel suo intervento ha portato l’attenzione sul termine "masseria", richiamando la percezione che di essa si ha nell’immaginario antropologico della sua terra, la Puglia: un luogo epifanico, in cui il tempo è come sospeso e dove la vita si realizza nel piacere degli affetti familiari. Uno spazio magico e fanciullesco, come quello della campagna anatolica, dove vivevano gli avi della Arslan protagonisti del romanzo. Ma l’incanto immacolato di queste gioie domestiche è bruscamente spezzato, senza apparente logica, per arbitrio e capriccio altrui e viene a conoscere fosforescenze da tragedia.
Sinisi ha confidato di aver scupolosamente scandagliato il testo, nel tentativo di restituire accuratamente le geometrie dei rapporti familiari che si realizzavano all’interno di quel rustico sull’altopiano anatolico. Lo spettacolo è la ricreazione di un momento di genuina e trasparente umanità: la vita di una famiglia armena poco prima che l’orrore bieco ingoi tutto e per sempre.
In questa inevitabile terribilità niente sembra salvarsi, ma il messaggio che Sinisi regala è di grande speranza: «La bellezza è una esperienza, è una possibilità» che lambisce il concetto di eternità. La bellezza delle relazioni che abbiamo costruito non può essere distrutta. Vive di vita propria, al di là della cattiveria devastatrice degli uomini e del tempo.
Sinisi nella riduzione in copione del testo e nell’allestimento delle scene, ha fatto trasparente confessione della sua poetica, secondo la quale il teatro - e tanto più il Dramma di quest’anno - si configura come una sorta di "ludoteca per adulti", dove i segni, i simboli, reclamano che gli spettatori ne facciano esperienza senza onere di interpretazione, proprio come un bambino fa esperienza del gioco, libero dall’obbligo di comprenderne tutti i reconditi significati. La segreta ambizione del regista pugliese è allora quella di annullare le dimensioni dello spazio e del tempo, per assorbire collettivamente gli spettatori in un rito di prossimità empatica con la tragedia vissuta in Turchia dalla famiglia della Arslan.
E allora l’appello di Sinisi è chiaro: il Dramma quest’anno ci invita, forse come non mai, a scalfire la nostra quieta e sazia routine, per esplorare i territori spigolosi dell’ombra emotiva.
Il milione e mezzo di nostri fratelli in umanità, massacrati dai turchi un secolo fa, ce lo domandano come indifferibile dovere di giustizia.
(Foto di Danilo Puccioni)

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