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DRAMMA POPOLARE - La voce calma e misurata di Antonia Arslan artiglia l'uditorio, costringendo all’ascolto su una delle pagine più raccapriccianti della storia del Novecento: l’olocausto del popolo armeno, pianificato e perpetrato con scientifica lucidità dall’Impero ottomano tra 1915 e 1916. Neppure un imprevisto calo di voce, contingenza di stagione, è riuscito a imbrigliare il racconto sofferto di questa esimia e garbata accademica, che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita al dovere della memoria per il milione e mezzo di suoi consanguinei massacrati in Turchia oltre un secolo fa.

La tematica si è rivelata di tale interesse, che l’elegante sala consiliare del Comune di San Miniato non è bastata - il 24 maggio scorso - a contenere il generoso afflusso di pubblico, tanto che si è dovuto rimediare con sedie di fortuna.
Quando è stata contattata dalla dirigenza del Dramma Popolare per l’allestimento, nel prossimo luglio, della "Masseria delle Allodole", ha confidato di aver provato una intensa emozione, la stessa di quando le arrivò, oramai più di dieci anni fa, la telefonata di Paolo e Vittorio Taviani, che volevano trasporre in pellicola il suo romanzo: "Paolo e Vittorio mi raccontarono di come si erano imbattuti nel mio libro. Del profondo sconcerto, e per certi versi, dell’enorme senso di colpa generato dalla lettura del testo. Erano esterrefatti al pensiero di aver ignorato fino a quel momento questo macabro capitolo di storia. L’intenso e struggente film da essi girato in Bulgaria nel 2007 è stato il loro personale modo di "sdebitarsi"".
La censura sul genocidio armeno inizia all’indomani dei fatti. La Arslan ha raccontato come negli anni Trenta a Hollywood, per ben sette volte, si tentò di trasporre in pellicola il romanzo di Franz Werfel del 1929 "I quaranta giorni del Mussa Dagh", che narra dell’eroica resistenza di sette villaggi armeni situati alla base del promontorio Mussa Dagh, dove cinquemila persone, rimasero asserragliate quaranta giorni resistendo agli assalti turchi. Nella città degli Oscar tutto era pronto: sceneggiatura, regista, set, attori, produzione, ma ogni volta l’interferenza del governo turco riusciva a bloccare l’inizio delle riprese. In anni recenti la ricerca storica è andata a spulciare nella corrispondenza che, in quel giro di anni, le case cinematografiche intrattennero con le autorità governative turche, ricavandone prove inconfutabili riguardo a questa ingerenza.

Occorrerà forse ricordare che anche il film "The Promise" del 2015, che tratta grosso modo la stessa tematica, con protagonista un convincente Christian Bale, ha avuto enormi difficoltà a trovare un distributore e la pellicola ha attirato su di sé operazioni di trolling e di voti negativi che hanno abbassato il rating del film, fatto che rappresenta quasi un’evoluzione delle forme e delle modalità del negazionismo. Constatato che non è possibile nascondere in eterno la verità, si cambia strategia deprezzandola, con l’obiettivo di darle meno risalto possibile. D’altronde - ha ricordato proprio la Arslan - anche i fratelli Taviani ebbero serie difficoltà nel reperire i finanziamenti per il loro film, se è vero che la Germania, che figurava inizialmente tra le nazioni promotrici della "Masseria", si è poi ritirata dalla produzione.

La scrittrice ha spiegato che la parola "genocidio" risultava sconosciuta ai dizionari prima del 1943; viene elaborata esattamente in quell’anno grazie alla riflessione del grande giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin, che sentendosi profondamente interpellato proprio dalla strage degli Armeni, coniò questo neologismo giustapponendo una radice greca con un suffisso latino. La sua riflessione concettuale si arricchì poi e perfezionò fino a tutto il 1948, quando il vocabolo aveva ormai pienamente assunto i connotati semantici che ha oggi per noi. Nel dopoguerra Lemkin arrivò a sostenere che se la Società delle Nazioni avesse da subito attribuito dignità giuridica al termine "genocidio", avremmo probabilmente potuto disporre di un deterrente morale - una sorta di paletto - per il genocidio degli ebrei che proprio in quel giro di anni stava compiendosi.

Utilizzare nel contesto pubblico la parola "armeno" suscita ancora oggi reazioni scomposte, per non dire isteriche, se è vero che anche Papa Francesco, parlando tre anni fa senza imbarazzo di questo capitolo di storia, si attirò gli strali e le contumelie del premier turco Erdogan. Il Santo Padre, in quell’occasione, connotò il genocidio armeno come "persecuzione contro i cristiani", avocandolo al grande capitolo del martirio dei cristiani nella storia. Niente di nuovo, né di straordinario, se si considera che il Papa stava semplicemente rilanciando, con tono ufficiale e solenne, quello che già lo storico tedesco Michael Hesemann aveva esplicitato a chiare lettere in un suo volume di pochi anni prima: "In merito a quanto successo in Turchia un secolo fa, si dovrebbe parlare più compiutamente di genocidio cristiano".

È un dovere di giustizia conservare e trasmettere la fiaccola della verità storica su questa epocale sciagura etnica. Venendo fino a San Miniato, Antonia Arslan ha idealmente consegnato anche al Dramma Popolare, proprio come un tedoforo olimpico, questa "sacra fiaccola" della memoria perchè venga portata ancora più in là.

(Foto: Danilo Puccioni)

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