Vincenzo Gioberti

DALLA DIOCESI - Da Parigi, il 4 marzo del 1850, Vincenzo Gioberti scrive al preposto Pacchiani, residente a Lari. Si tratta di una lettera molto lunga, che abbiamo deciso di pubblicare solo in alcuni stralci per ragioni di spazio. L’originale completo sarà comunque consultabile presso la Biblioteca del Seminario vescovile. Dalla lettura del documento si evince come il rapporto tra i due uomini fosse consolidato, un rapporto di amicizia insomma. Non sappiamo se i due si fossero mai incontrati, certamente le amicizie in comune con protagonisti del Risorgimento italiano come Montanelli, ci fanno propendere per un’amicizia nata per corrispondenza e mutui rapporti di conoscenza reciproca. Il cuore della lettera è una difesa a tutto tondo del libro "Il gesuita moderno" e dei metodi di ostacolo alla sua diffusione. Un documento eccezionale, che merita di essere ricordato e pubblicato.


Reverendo ed egregio Signore,
Vi ringrazio dell’opera officiosa che avete fatto presso il Cardinale di Ferrara. Egli non è la prima volta che cotesto Prelato mi calunnia, giacché due anni fa in circa in un certo suo scrittarello travisò alcuni passi del mio Gesuita in modo indegnissimo (…) . Egli cita la mia premessa, ma tace affatto la conseguenza che io ne deduco, per far credere a chi legge che l’osservazione da me fatta miri a rendere l’Evangelio sprezzabile, anziché a chiarirlo sovrumano e divino. Io mi proponevo di rispondere su questo proposito al Cardinale nel 2° tomo dell’Apologia; ma gli eventi politici e le occupazioni mi impedirono di attendere al compimento del mio lavoro. (…) Io voglio ammettere, poiché lo dite, che il Prelato sia di buona fede; ma mi sarà forza credere il contrario se Egli persevera nel suo proposito e non emenda il male che ha fatto finora. (…) Quanto all’ossequio da rendersi al Papa in proposito della proibizione del mio libro, io vi dirò schiettamente ciò che ho fatto non di mio puro arbitrio, ma col parere di alcuni pii e dotti ecclesiastici, e segnatamente di un Vescovo francese dottissimo che vidi in occasione del Sinodo celebrato qui in Parigi; e posso assicurarvi che la deliberazione da me presa non mosse da amor proprio male inteso, ma dal solo amore della verità e dallo zelo della Religione. La soggezione che si presta a un Decreto Ecclesiastico deve essere proporzionata alla natura di esso decreto. Se il Decreto emana da una autorità infallibile, la soggezione dee essere intera, assoluta, perfetta, qualunque sia il parere individuale. Ma se l’autorità non è infallibile, l’ubbidienza deve ristringersi fra quei limiti che sono determinati dagli ordini della Gerarchi Cattolica. Il Decreto proibitivo del mio libro non viene dalla Chiesa né dal Papa. Non procede né anco dalla Congregazione dell’Indice, la quale esaminò da principio l’opera mia e la giudicò non meritevole di censura. Esso fu rogato da una commissione straordinaria di Cardinali che procedette con violazione di tutte le regole solite, e che fu mossa evidentemente da uno scopo politico e fazioso; come si ritrae da mille indizi e segnatamente dalla proibizione dello scritto di Rosmini sul Governo costituzionale; scritto affatto politico e che non ha niente che fare con la Religione. (…). Ingiuria la Chiesa non solo chi le nega il dovuto ossequio, ma eziando chi presta tale ossequio a un’autorità infinitamente inferiore, e confonde il divino coll’umano. (…) Vi prego di meditare queste mie poche parole. Non ho potuto altro che accennare le mie ragioni, ché a stenderle ci vorrebbe un libro! Ma voi siete un buon intenditore. Vedrò con sommo piacere il vostro scritto. Ve ne ringrazio di cuore non solo per conto mio, ma della Religione, che non si trovò mai in istato più doloroso che oggi. I pericoli che la minacciano sono immensi, e nulla può meglio avvalorarli che la imprudenza di Roma. Mi dico con alta stima vostro servitore ed amico. GIOBERTI

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