rianimazione

DALLA DIOCESI - Il reparto di rianimazione degli ospedali è un luogo unico. Un porto, un approdo, un bivio definitivo tra la vita e la morte. Oltre le porte di quel reparto si materializzano le speranze e le paure di ogni uomo. Su quei lettini ultra tecnologici non c’è razza, non c’è religione: c’è solo un essere umano e la sua malattia, sospeso nel vuoto.
Poco fuori, nelle sale d’attesa, ci sono i familiari, gli amici che aspettano un cenno, una risposta. C’è chi sgrana il Rosario, chi rimane in silenzio, chi si abbandona alla disperazione, chi esulta per una gioia infinita.
In mezzo a questi due mondi lavorano gli infermieri del reparto, che 24 ore su 24, 365 giorni all’anno accudiscono i degenti del reparto rianimazione.
Un mestiere non facile, affidato a professionisti iperspecializzati con grande cuore (oltre che testa e fegato) che combattono quotidianamente a fianco di chi è sospeso tra la vita e la morte.
Una battaglia difficilissima, a volte impari, che mette a dura prova coloro che la combattono.
Valeria (nome di fantasia) infemiera in un reparto di rianimazione di uno degli ospedali del territorio diocesano, racconta in esclusiva a «La Domenica» la vita di un infermiere “di frontiera”.

Come è organizzato il reparto di rianimazione?
«Complessivamente siamo oltre 30 infermieri con altrettanti medici con una decina di posti letto. Le unità paziente sono delimitate da tende, ed un desk centrale con i monitor satellite».

Cosa si prova a livello umano a lavorare a contatto con i malati della terapia intensiva? Perché questa scelta?
«Ho scelto la rianimazione perché facendo tirocinio al secondo anno di università sono entrata in questo mondo e me ne sono innamorata.
Un mondo in cui la specializzazione è altissima, la professionalità e la cura verso i tuoi pazienti sono ai massimi livelli. Ritengo che la rianimazione sia il reparto che ti permette di avere una visione d’insieme del paziente perché non devi sottovalutare nessun aspetto della cura della persona. L’infermiere del reparto deve essere capace di curare la pelle (per esempio una piccola sbucciatura) e l’insufficienza multiorgano contemporaneamente.
Il nostro lavoro significa letteralmente prendersi cura dell’altro.»

Turni massacranti, orari sballati, rischi per la salute, notevole stress psicofisico: come fate a fronteggiare questi problemi?
«Lavorare in rianimazione è molto faticoso, sotto tutti i punti di vista. Sia perché una carenza di personale è una grande difficoltà, soprattutto per noi che abbiamo in carico in media 2 pazienti ciascuno. Sia perché si attraversano tutti gli stati d’animo. Anche se credo che questo valga per tutti gli infermieri, per noi lo è in modo particolare. È un lavoro che ti porta via tante energie perché non puoi somministrare farmaci e non fare caso all’espressione sul volto del tuo paziente. Non puoi solo “lavorare” ma inevitabilmente vivi. Vivi i dolori, anche con un certo senso anticipatorio, perché molto spesso sai già cosa succederà dopo. Quindi se il tuo paziente è cosciente devi indossare una maschera, altrimenti lo devi fare con i familiari. Non mi fraintenda, non nel senso “ti prendo in giro” ma molto spesso ti trovi a non voler togliere la speranza alle persone che hai di fronte, almeno per i primi momenti. La rianimazione è un luogo difficile da affrontare soprattutto all’inizio l’impatto è molto forte.
Va detto poi che il lavoro su turni è molto stessante. Agli occhi della collettività siamo liberi per un sacco di tempo. Ma non si capisce quanto sia del tutto non fisiologico lavorare a turni. L’equilibrio veglia-sonno è completamente sovvertito. Le dico solo che quando ho anche solo una settimana di ferie in cui posso dormire tutte le notti, mi sento rinata. Sembra assurdo ma la mia pelle è più sana, ho più energia, e meno fame.
Con i tempi attuali ti ritrovi invece a dover rientrare anche nei giorni di riposo perché le aziende non assumono e siamo sempre in carenza di personale.

Voi più di tutti assistete chi è in bilico tra la vita e la morte, come decidere il limite tra cura e accanimento terapeutico?
«Mi chiede il limite tra cura e accanimento terapeutico. Come faccio a risponderle!?
I grandi della medicina ancora dibattono su questo tema. Quello che posso dire è che giornalmente io e i miei colleghi medici e infermieri (perché da noi siamo tutti con la stessa divisa e condividiamo decisioni ogni giorno durante il briefing mattutino) ci domandiamo proprio dove sta questo limite.
La mia sensazione è che spesso si tenda ad andare un po’ più verso l’eccessiva cura per cercare di cogliere anche il minimo segnale di ripresa, perché chi siamo noi per essere sicuri che non ci sia più nulla da fare?»


Che tipo di rapporto si crea con i familiari dei degenti?
«Il rapporto con i familiari è molto spesso sottovalutato. Benché sia esplicitamente citato nel nostro codice deontologico, in realtà poi l’azienda (e più in generale le istituzioni) non ti danno il tempo di poterti occupare dei familiari, sia in termini di tempo, sia per quanto riguarda la nostra formazione. Quindi ti ritrovi, per pura propensione caratteriale, ad instaurare un rapporto ai piedi del letto del paziente, ritagliando attimi di tempo alla tua normale attività. Personalmente la cosa che mi fa soffrire di più è proprio il rapporto con i familiari perché è nei loro occhi che si legge la disperazione e la gioia infinita, quando si tratta di guarigione. Molto spesso il paziente ha una percezione alterata di se stesso soprattutto nei momenti in cui è stato più male. Il familiare invece ricorda e vive perfettamente tutti gli attimi di paura e sconforto. Quindi poi al momento della guarigione molti pazienti mi chiedono “ma stavo davvero male”? Un po’ per scherzo, quasi increduli. E io con un mega sorriso nel cuore gli spiego quello che erano nei giorni passati.

Qual è la storia più bella che le è capitato di vivere nel reparto?
«La storia più bella....ce ne sono tante! È per questo che continuo a rimanere nel reparto! Le posso citare quella di una giovane arrivata con uno shock settico, che è rimasta da noi per diverse settimane. Una grande donna con una grande forza che ci ha fatto sentire... bravi, nonostante la grande fatica!»

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