PIEVE A RIPOLI - Abbiamo incontrato don Marcos Policarpo, da pochi giorni parroco a Pieve a Ripoli.
Don Marcos, originario di Bariri nello stato di San Paolo in Brasile, è sacerdote da 11 anni.
Questo suo nuovo incarico si aggiunge a quelli di amministratore parrocchiale in Santa Maria Assunta a Bassa e a San Bartolomeo a Gavena.
Ci racconta di essere arrivato in Italia 23 anni fa. Sua mamma, pugliese, emigrò in Brasile al seguito dei nonni nel dopo guerra. Nato e cresciuto in Brasile, don Marcos ha cittadinanza italiana. Poliglotta e, potremmo dire, «cittadino del modo», ha intrapreso università e seminario a Roma, per poi perfezionare i suoi studi negli Stati Uniti e poi di nuovo in Italia a Firenze.
Come hai conosciuto la nostra diocesi e quali circostanze ti hanno portato a rimanervi?
«Sono venuto a contatto con la Diocesi di San Miniato tramite un sacerdote conosciuto in Italia che mi ha presentato l’allora vescovo Mons. Ricci, il quale mi ha accolto paternamente dandomi così la possibilità di verificare maggiormente il desiderio che avevo di rispondere a quella chiamata al sacerdozio che sentivo nel mio cuore. Il tempo trascorso nel seminario di San Miniato e in quello di Firenze ha rafforzato il desiderio di offrire al Signore la mia vita e di continuare il cammino verso il sacerdozio. L’attenzione che i superiori hanno avuto nei miei confronti, la formazione avuta insieme ad altri seminaristi mi hanno portato a considerare la Diocesi di San Miniato il luogo in cui il Signore mi stava chiedendo di rimanere per svolgere quello che sarebbe stato il mio servizio presbiterale».
Lo invito a raccontarci qualcosa della sua spiritualità e del cammino che lo ha portato al sacerdozio. La sua "confessione" è edificante, densa e intima: «Credo di poter dire che due sono "le colonne" sulle quali ho sempre cercato di fondare la mia vita spirituale e sulle quali vorrei continuare a crescere: l’Eucarestia e la Vergine Maria. L’Eucarestia, come dice il termine stesso, è per me un "rendere grazie" a Dio Padre per il dono del Suo Figlio, un dono del quale non riusciremo mai a comprendere fino in fondo la grandezza, un dono che diventa forza e speranza nel cammino della vita; è un "rendere grazie" per quanto ha realizzato nella mia vita e in quella di ogni uomo, per quanto ha compiuto e compie in questa mia esistenza terrena. La Vergine Maria è per me l’esempio da seguire nelle situazioni che mi si presentano e che sono chiamato, non tanto a comprendere, quanto ad accogliere. La Madonna è Colei che mi aiuta a cantare il "mio" nuovo Magnificat e che mi sprona nei momenti in cui tutto sembra essere difficile ed oscuro.
Durante il cammino verso il sacerdozio, tanti sono stati i momenti in cui mi sono chiesto se questa era la strada che Dio mi stava chiedendo di percorrere; la nostalgia della mia terra, gli affetti familiari che ho dovuto lasciare, le difficoltà delle nuove realtà da affrontare spesso rischiavano di farmi perdere di vista la meta verso la quale ero diretto… ma grazie alla preghiera e all’intercessione della Vergine sono riuscito a non farmi distogliere da quella prima chiamata che ho sentito nel cuore. In questo cammino devo essere anche grato a coloro che mi sono stati accanto umanamente e che hanno cercato di sostenermi e di incoraggiarmi».
Quali differenze hai trovato tra la vita di Chiesa (e il modo di vivere la fede) tra l’Italia e il Brasile?
«La Chiesa brasiliana è molto bella, viva e gioiosa, la fede fa parte della vita quotidiana della gente. L’andare in Chiesa fa parte del Dna brasiliano. Abbiamo una devozione tutta particolare alla Madonna, molto amata e venerata in Brasile. Qui in Italia vedo che l’accento è posto maggiormente sulla tradizione religiosa».
Puoi fare un bilancio di questi tuoi anni nel nostro Paese?
«Anche se ci sono stati momenti difficili dovuti alla diversità di cultura, di mentalità e al dover imparare la lingua italiana, ritengo che gli anni trascorsi in Italia siano stati utili per far crescere in me la capacità di rapportarmi con situazioni, realtà e persone spesso diverse, se non lontane, dal mio modo di essere e di vedere».
Cosa hai detto ai parrocchiani al momento del tuo ingresso a Pieve a Ripoli?
«Ai miei nuovi parrocchiani ho scritto una lettera in cui raccontavo la mia vita, proprio come si farebbe con un amico, per far capire loro che non sono a loro estraneo. Vorrei conoscere tutti, arrivare a tutti, con il dialogo e l’ascolto. Non si riesce facilmente ad amare qualcuno se non lo si guarda negli occhi, non si impara a conoscere il timbro della sua voce, ad ascoltare i racconti della sua vita fatta di lacrime e di gioie, di speranze e delusioni. Non arrivo a Pieve per inventare qualcosa di nuovo, ma per continuare una storia; la storia di Dio che è già intrecciata con quella di tutti. Nella lettera ho assicurato la mia presenza nella gioia e nel dolore, sempre accanto alla gente, sulle loro vie. Ho chiesto di non essere lasciato solo, perché ho bisogno dell’aiuto e del consiglio di tutti. Un prete - ci dice con spiccato senso dell’ecclesiologia - da solo, non può fare nulla».
Invitato a riflettere su quali siano le sfide che lo aspettano in questo nuovo incarico, ci dice con franchezza: «Attualmente il mio pensiero è rivolto a come riuscire ad equilibrare il servizio nei confronti delle tre parrocchie, cercando di venire incontro alle diverse necessità. Sono consapevole che forse qualcosa dovrà essere cambiato, ma confido nella comprensione e nell’aiuto dei parrocchiani: tutto quello che si potrà fare sarà unicamente per il bene delle tre comunità. Pur nella diversità, dobbiamo cercare di vivere l’unità».