LAVORO - Se andiamo a cercare sul dizionario il termine flessibilità, fra i sinonimi troviamo le seguenti parole: elasticità, pieghevolezza, cedevolezza, malleabilità e duttilità.
Nella letteratura accademica, come nel vocabolario dei politici e degli imprenditori ascoltiamo spesso la parola flessibilità e l’espressione lavoro flessibile. Cosa intendono i legislatori per lavoro flessibile? Per capire ciò dobbiamo conoscere le leggi che hanno riformato il mondo del lavoro dal 1997 ad oggi. Il la fu dato dal ministro del lavoro Treu con la legge 196 del 1997 durante il governo Prodi che introdusse il lavoro interinale e quindi precario.
Poi fu la volta della legge Biagi del 2003 durante il governo Berlusconi che regolò i tantissimi rapporti precari, di fatto legittimandoli ancora di più. Sempre con il governo Berlusconi venne approvata la legge 183 del 2010 che introdusse il secondo nuovo termine di decadenza per l’impugnazione dei licenziamenti, estendendo questa normativa anche ai lavoratori più precari, impedendo loro di rivendicare i propri diritti. Arriviamo quindi alla riforma Fornero sulle pensioni e sull’articolo 18, votata sia dal Pd che dal Pdl. Ma il colpo di grazia all’ articolo 18 dello statuto dei lavoratori giunse nel 2014 con il governo Renzi con la legge delega del 10 dicembre 2014 n. 183 chiamata pomposamente "Jobs Act"che di fatto lo annullò. A questo punto, ci accorgiamo che la parola flessibilità è inesatta e imprecisa, la parola giusta è precarietà e lavoro precario. Infatti nel dizionario della lingua italiana alla parola precarietà leggiamo: provvisorietà, temporaneità, transitorietà, insicurezza, incertezza, instabilità e caducità. Tutti termini che possono generare una certa inquietudine. Quindi non è che i legislatori e i politici dei vari governi non conoscano la grammatica italiana, ma astutamente hanno pensato di usare un termine più accettabile dalla collettività anche se non veritiero. In questi anni abbiamo verificato da parte dei corpi intermedi, ma anche da tutto il mondo politico che si può dire abbia fatto una staffetta scambiandosi il testimone, di governo in governo con l’obbiettivo comune di distruggere i diritti dei lavoratori, atteggiamenti che esprimevano accettazione, silenzio-assenso, indifferenza. La nota teoria della rana bollita, di Noam Chomsky, può spiegare tutto ciò. Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.
Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, balzando subito fuori dal pentolone.
Insomma la similitudine è chiara, i lavoratori e i sindacalisti sono morti bolliti come la rana.
L’esperienza rappresentata da Chomsky mostra che – quando un cambiamento si effettua in maniera sufficientemente lenta – sfugge alla coscienza e non suscita – per la maggior parte del tempo – nessuna reazione, nessuna opposizione, nessuna rivolta. Alla gradualità dell’azione è stato inoltre associato uno stravolgimento del significato delle parole usate per accompagnare «l’ebollizione»: il termine «Riforme» a cui di solito è data un’ accezione positiva, di carattere comunque evolutivo è costantemente usato per coprire manovre e provvedimenti di natura negativa, di carattere spesso anche fortemente regressivo e il termine flessibilità al posto di precarietà.