SOCIETÀ - In Italia gli stipendi sono fra i più bassi d’Europa; in Germania ad esempio un insegnante guadagna quasi il doppio di un docente italiano e inoltre in questo Paese come in quasi tutti i Paesi europei, c’è una legge che indica un limite al di sotto del quale gli stipendi di qualsiasi lavoratore non possono scendere. In Italia invece non ci sono limiti né per il minimo né per il massimo, per cui ci sono stipendi che arrivano anche a 300 euro al mese e stipendi che superano 100.000 euro al mese. Questa sperequazione non contribuisce certamente a realizzare la pace sociale, che verrà sempre più a mancare.
Gli imprenditori affermano che nel nostro Paese gli stipendi sono troppo alti, quindi forse pensano che se la maggior parte dei lavoratori guadagnano dai 300 agli 800 o 1.000 euro al mese l’economia italiana, ristoranti, strutture turistiche e negozi, possa girare ugualmente? Abbiamo visto quante difficoltà incontrano i giovani che aspirano a lavorare, specialmente le giovani donne e in questo quadro come si inserisce il sindacato? Non bene purtroppo. Certo le leggi le fanno i politici e negli ultimi anni abbiamo sentito da parte di uomini politici, frasi arroganti tipo «noi andiamo avanti, il sindacato se ne farà una ragione».
Però è anche vero che le organizzazioni sindacali hanno commesso molti errori in questi ultimi decenni. Non c’è dubbio che il sindacato stia vivendo nel nostro paese un progressivo indebolimento nel contesto dei processi sociali ed economici. Che il sindacato sia in difficoltà, è sotto gli occhi di tutti quindi, ciò che invece sorprende è rilevare come proprio dai lavoratori provenga in larga misura un calo di fiducia nei sindacalisti. Finché ad avere questo atteggiamento è la parte datoriale, rientra nella norma, ma che siano i lavoratori stessi ad esprimere spesso un giudizio negativo su chi in teoria li dovrebbe difendere è sicuramente un fatto paradossale.
È pur vero che da molti anni sono state messe in atto da parte dei datori di lavoro, in particolar modo nelle grandi aziende, varie strategie manipolative rivolte specialmente ai più giovani, inducendo quest’ultimi a considerare il sindacato come colui che può impedire una carriera o un aumento di stipendio. La tendenza è portare la collettività verso un individualismo sfrenato, come negli Stati Uniti, in modo che non ci sia più una trattativa collettiva volta al miglioramento delle condizioni economiche di tutti, ma una trattativa che ognuno pensa di poter fare individualmente, illudendosi di essere più abile degli altri.
Non sempre e non tutti i sindacalisti si comportano male, ma una parte sì e, paradossalmente i lavoratori si iscrivono maggiormente con le sigle sindacali che sono le cosiddette «sigle gradite all’azienda« pensando così di avere maggiori favori. Molti scambiano ciò che gli spetta di diritto come un favore personale ed è questa una cultura tipica di un altro terribile fenomeno sociale.
Ma i lavoratori dovrebbero capire che un sindacato non è colui che ti fa dei favori, ma colui che fa rispettare i diritti dei lavoratori e li protegge dalla protervia di alcuni datori di lavoro, beninteso alcuni imprenditori sono bravissimi e onesti, ma non tutti.
Essere iscritti oggi ad un sindacato è un atto di civiltà, poiché nonostante tutto rimane l’unico argine contro il dilagare del liberismo più sfrenato che sta per riportare le condizioni del lavoro come nel 1800.
Quindi incertezza, precarietà, negazione dei diritti, stipendi dimezzati dai nuovi contratti, in questo contesto non certo idilliaco, da poco le grandi aziende hanno istituito il manager della felicità. Verrebbe quasi da ridere, ma la parte datoriale afferma che è una cosa seria. «Il successo di un’azienda passa attraverso la felicità - sostengono le più importanti società - prima di tutto la soddisfazione e il coinvolgimento delle proprie risorse. Fidelizzare i propri dipendenti non è meno importante che fidelizzare i propri clienti, anzi». Le aziende stanno investendo sempre più tempo e risorse per comprendere i desideri e le richieste dei propri collaboratori e provare a soddisfarli. Ma tutte le volte che i rappresentanti sindacali aziendali, parlando con la parte datoriale per perorare una richiesta di un lavoratore, sostenendo che i dipendenti soddisfatti e sereni rendono di più, veniva sbattuta loro la porta in faccia, tranne qualche eccezione, non se lo ricorda più nessuno?
Adesso gli imprenditori hanno scoperto per così dire l’acqua calda e scimmiottano, senza peraltro riuscirci, un grande imprenditore illuminato e un grande uomo che capiva davvero le difficoltà e i problemi dei lavoratori, Adriano Olivetti.
A quanto pare il cosiddetto manager della felicità sarà chiamato a occuparsi del benessere del lavoratore, anche dal punto di vista dei percorsi di carriera, della formazione e degli obiettivi di crescita. La parte datoriale si è veramente accorta che con le persone motivate e serene diminuisce sensibilmente l’assenteismo e che se si favorisce la collaborazione tra colleghi miglioreranno le performance dei singoli e, di conseguenza, dell’intera struttura?
Non è necessario avere preso un master alla Bocconi per capire queste cose che sono di buon senso, ma sarà difficile che gli imprenditori italiani acquisiscano questa mentalità, dentro di loro è sempre radicata la cultura del «divide et impera», cultura che rende gli ambienti di lavoro invivibili, dove anche i più elementari diritti, come avere alcuni giorni di permesso se il proprio padre è ricoverato in ospedale, permesso oltretutto previsto dalla legge, a prescindere dal tipo di contratto, sono negati per far risparmiare l’azienda, perché chi gestisce il personale di una grande impresa, riceve dei benefit se fa risparmiare il datore di lavoro in termini di pagamento di straordinari o di permessi retribuiti. Potremmo solo dare un suggerimento alla parte datoriale: date questo ruolo di manager della felicità a qualche sindacalista serio e ce ne sono tanti, non di quelli graditi all’azienda, ma di quelli che sono coerenti con il loro ruolo, ruolo che esercitano non con rigidità, ma con rigore e fermezza, sempre nel rispetto di ambo le parti.